Kant's Metaphysics of Morals

Mark Timmons (ed.)

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Sommario

Il testo recensito

Il volume fa parte dei numerosi companions che la ricerca kantiana internazionale ha dedicato all'autore. Dopo lavori simili sulla Fondazione della metafisica dei costumi e sulla Pace perpetua, si è giunti, in anni più recenti, alla Metafisica dei costumi, alla cui prima parte era stato già dedicato il XIX volume della collana Klassiker Auslegen, uscita per la cura di Otfried Hoeffe (Metaphysische Anfangsgruende der Rechtslehre, hrsg. v. O. Hoeffe, Berlin, Akademie, 1999, 310 pp.). I saggi che presentiamo sono stati scritti in occasione della Spindel Conference del 1997, e successivamente pubblicati nel volume 36° del Southern Journal of Philosophy (1998), come supplemento della rivista. Il presente volume li raccoglie nella versione definitiva, in alcuni casi rivista rispetto a quelle precedenti.

La raccolta si caratterizza innanzi tutto per la volontà di offrire una ricostruzione intergrale dell'impianto teorico dell'intera Metafisica dei costumi, e non soltanto della Dottrina del diritto. In questa direzione, viene preso in considerazione uno spettro molto ampio di temi, che muovono dal problema della fondazione del concetto del diritto per giungere ai principali problemi dell'etica, come il rapporto tra virtù e felicità, il significato dei doveri, il senso dell'azione. In quest'ultima direzione si possono ritrovare anche i motivi dominanti il dibattito anglosassone negli scorsi decenni. Tra gli autori ritroviamo alcuni dei più noti studiosi di Kant: Allen Wood, Paul Guyer, Bernd Ludwig, Onora O'Neill, Marc Timmons, Kenneth Westphal e molti altri.

L'esordio è affidato a un saggio di Allen Wood, su La forma conclusiva della filosofia pratica kantiana (pp. 1-21). Il contributo ripercorre il problema della conciliabilità del diritto con la morale, in relazione alle differenti forme dell'obbligazione a cui Kant aveva fatto riferimento fin dalla genesi della sua filosofia pratica. In questo senso, l'A. ripropone la tesi della differenza tra la "coattività" dell'obbligo giuridico e quella dell'obbligo morale come distinzione tra una "autorizzazione alla coercizione", da un lato, e una obbligazione fondata sulla "sinteticità dell'imperativo categorico", dall'altro (pp. 7-8). Per questa ragione, Wood nega l'altra tesi, formulata peraltro direttamente da Kant, dell'unità del fondamento dell'intera metafisica dei costumi. In altri termini, questo lavoro tende ad accentuare la distinzione tra legalità e moralità, considerando una condizione della prima la mancanza di un "incentivo morale" conforme alla tipologia delle "azioni etiche". Pertanto, "i doveri giuridici sono quelli il cui concetto non contiene princìpi sintetici atti a portarli a compimento, mentre i doveri etici sono quelli che nel loro concetto sono sottomessi all'incentivo oggettivo del dover essere (Sollen), ovvero della legislazione razionale" (p. 8). Il problema dell'applicazione della legge morale rinvia così a un diverso ambito della filosofia, che è del tutto peculiare rispetto a quello della mera legalità, e che riguarda l'uomo e l'umanità nel suo complesso come fini in sé. A questo concetto fa riferimento la conclusione dell'opera del 1797, in base alla quale dottrina della virtù costituisce una peculiare deontologia basata su una determinata concezione del bene, piuttosto che sull'idea del giusto, come invece accade per gli auotori che si riconoscono nell'orientamento prevalente all'interno della filosofia morale contemporanea (p. 14).

Facendo ingresso nella prima parte del volume, nella quale sono trattati i temi relativi alla Rechtslehre, Paul Guyer e Markus Willaschek si sono occupati del problema relativo al diritto di coazione. Col saggio di Guyer La deduzione kantiana del principio del diritto (pp. 23-64), il volume ci porta all'interno di una fondamentale questione teoretica, quella legata alla definizione del "concetto del diritto". Il contributo dell'A. ha il pregio di andare a fondo nel problema, e riesce a farlo con notevole competenza, trattandosi di una questione tra le più ardue della riflessione kantiana. Con una perfetta padronanza dei molteplici riferimenti testuali, compresi i numerosi luoghi del Nachlass, del quale vengono esaminate in particolare le lose Blaettern Erdmann, Guyer si intrattiene sulla struttura logica del concetto del diritto, mettendo a confronto le due opposte ipotesi della natura analitica, ovvero sintetica, del suo principio. Se è vero quanto ha scritto lo stesso Kant, cioè che quest'ultimo principio si costituisce attraverso una proposizione analitica, allora il concetto del diritto non può avere alcuna deduzione, ma soltanto una "costruzione". Guyer rimedita il concetto di "deduzione", mettendo in rilievo come, a differenza di quanto si è soliti credere, secondo Kant l'esigenza di deduzione non investe solamente i giudizi sintetici a priori così come ci sono presentati nella Critica della ragion pura, ma "ogni principio il cui uso non può essere giustificato da un appello immediato all'esperienza" (p. 29); pertanto, si potrebbe affermare che "tutti i principi a priori" hanno bisogno di deduzione (pp. 29-30).

La questione in gioco è l'ammissibilità del metodo sintetico in riferimento al diritto. In particolare, Guyer studia il problema del "postulato giuridico della ragion pratica", un tema tradizionalmente ostico per gli esegeti. Kant afferma che "tutti i princìpi del diritto acquisito - cioè, tutti i princìpi dei diritti di proprietà - sono sintetici" (p. 42). Qui è chiaro che siamo di fronte, innanzi tutto, a una duplicità di riferimenti nella stessa terminologia kantiana, all'interno della quale l'A. si muove con chiarezza, proponendo - sulla strada di quanto è stato fatto già da altri studiosi - una rivisitazione della distinzione tradizionale tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche, fino ad aprire uno spettro di nuove possibilità interpretative, che in ogni caso sono incentrate sulla funzione riservata al postulato della libertà. Proprio perché, anche nella deduzione del principio del diritto, Kant intende riaffermare la centralità sistematica di quel fondamento, la libertà, dalla quale anche il principio del diritto dipende strettamente, proprio per questa ragione, il diritto innato alla libertà non può che essere analitico. Al contrario, il diritti acquisiti (come la proprietà) hanno bisogno di verificare in modo preliminare una tale conformità al quel fondamento dell'intero mondo morale, e per questa ragione devono essere dedotti, ma divenendo in tal modo oggetti di proposizioni sintetiche (p. 45). Sulla base di una tale lettura Guyer estende la propria ricostruzione al problema all'autorizzazione all'uso della coercizione (§ 5) e alla deduzione del già citato postulato giuridico della ragion pratica, con riferimento al diritto acquisito (§ 6).

Su un tema molto simile è sviluppato il lungo e brillante saggio di Markus Willaschek: Quali imperativi per il diritto? Sul carattere non-prescrittivo della legge giuridica nella Metafisica dei costumi di Kant (pp. 65-87). Willaschek muove però da una prospettiva differente rispetto a quella di Guyer, e tende a mettere in rilievo la centralità sistematica del rapporto tra concetto del diritto e concetto di coazione, seguendo una linea interpretativa largamente diffusa non solo all'interno della filosofia pratica di area continentale, ma anche in quella analitica. L'A. muove dalla distinzione tra moralità e legalità, argomentando su questa base il carattere non-prescrittivo della legge giuridica, a differenza della prescrittività propria della legge morale. La tesi è dunque una lettura critica della dottrina di Kant, che nell'opera sui costumi parla spesso di una stretta relazione tra etica e diritto, e in alcuni casi di una diretta dipendenza delle due sfere dall'unico fondamento dell'imperativo categorico. In questo senso, l'A. si muove nell'orizzonte delle interpretazioni anglosassoni contemporanee, che hanno messo in luce i problemi interni alla fondazione kantiana dell'etica. L'argomento di Willaschek ruota intorno alla non rintracciabilità di un vero e proprio "movente puro" all'interno di una definizione imperativa della legge giuridica, finendo con l'identificare quel movente nella coercizione, pertanto in una forma dell'eteronomia (p. 68). In effetti, su questo punto il testo kantiano propone differenti indicazioni, in quanto costruisce un quadro all'interno del quale è difficile giungere a una conclusione chiara ed esauriente. In questo senso l'A., come abbiamo detto, si muove in perfetta coerenza con l'indirizzo di studi ricordato, che il saggio rievoca nell'illustrare il "paradosso" degli imperativi giuridici, attraverso il quale Willaschek si richiama alla tesi proposta da Habermas in Faktizität und Geltung (Frankfurt a.M. 1992, p. 47), della "condizione necessaria dell'accettabilità morale delle leggi giuridiche per la loro validità normativa" (p. 73).

La ricostruzione di Willaschek si oppone fortemente a un'altra tesi ben nota, quella di Otfried Hoeffe - il quale ha parlato invece dell'esistenza di Kategorische Rechtsprinzipien (p. 71). Per quanto riguarda Kant, si deve comunque precisare che l'elemento caratteristico di questa lettura è dato da una immediata traduzione del concetto di coazione nella figura della coercizione, della quale la statualità ha offerto la forma paradigmatica. Una tale traduzione rende esplicito un fondamento penalistico da assegnare alla coazione stessa, alla quale Kant rinvia il concetto del diritto. L'idea di una legge giuridica costruita sul calco della legge penale reinterpreta allora il profilo del diritto alla luce di una rigida separazione dalla dottrina etica, facendo del diritto una disciplina tecnica più che una disciplina morale.

Passando dal problema teoretico della definizione del concetto del diritto alle tipologie del diritto privato e del diritto pubblico, segnaliamo i contributi di Kenneth R. Westphal: Una giustificazione kantiana del possesso (pp. 89-109), Saron Byrd: La teoria kantiana del contratto (pp. 111-131) e Bernd Ludwig: Da dove proviene il diritto pubblico? Il ruolo del ragionamento teoretico e pratico nella Dottrina del diritto di Kant (pp. 159-83). L'interessante contributo di Westphal ricostruisce la dottrina del possesso e la genesi del diritto di proprietà. Dopo la definitiva uscita di scena della lettura marxista, che in alcuni casi ha prodotto dei veri e propri topoi, la ricerca recente ha provato a rileggere il problema sulla base di un'analisi più fedele al testo, e meno influenzata dalle esigenze del presente. In questo senso, il tema centrale è divenuto il rapporto tra la legittimità del possesso e l'estensione del diritto ai giudizi sintetici. Come già detto, il problema del possesso degli oggetti esterni diviene così, impiegando le parole dello stesso Kant: "spiegare come sono possibili a priori proposizioni sintetiche riguardanti il diritto, cioè senza presupporre un altro diritto, cioè il possesso" (Ak., XXIII, 302). A ragione, nelle conclusioni l'A. ricorda che lo stretto rapporto di dipendenza, istituito a conclusione della deduzione del diritto privato come diritto acquisito tra il postulato giuridico della ragion pratica (che permette di giustificare il possesso intellegibile) e l'idea di un diritto pubblico, deve essere ricondotto alla tipologia di un mero "contratto ideale" (p. 109). I princìpi del possesso che istituiscono il diritto privato, dunque, sono basati semplicemente su una "convenzione originaria" che non riveste mai la funzione di fondamento costitutivo.

Lungo una prospettiva un poco differente si muove invece Bernd Ludwig, tra maggiori esperti del Kant “giuridico”. Ludwig, infatti, ha curato l'edizione della Metafisica dei costumi per i tipi della Meiner e ha pubblicato il volume: Kants Rechtslehre (Hamburg, Meiner Verlag, 1988), già oggetto di una dissertazione del 1985. Il saggio è tra i migliori contributi del volume. La riflessione di Ludwig prende in considerazione quello che lui stesso chiama il “gioco” della Dottrina del diritto, vale a dire la costruzione kantiana del “concetto del diritto” attraverso l'operazione di reciproca limitazione della sfera degli arbitri personali, seguendo l'idea di una possibile associazione tra il procedimento fatto proprio da Kant e gli strumenti metodologici delle teorie della scelta pubblica. La costruzione della sfera del diritto, dunque, può essere assimilata a un gioco a somma zero, che lascia interamente da parte ogni discorso legato alla sfera dell'interiorità, dei valori, e per questa ragione – afferma Ludwig – Kant ha omesso ogni riferimento alla questione dei moventi e ogni analisi della facoltà del desiderare. I fuochi della proposta di lettura di Ludwig sono da un lato il problema di grande difficoltà posta dalla formulazione di un sistema del diritto, quale secondo versante di un corpus metafisico; dall'altro la relazione che questa stessa costruzione pone con il primo versante, cioè con l'etica.

Per quanto riguarda la genesi della dottrina giuridica, l'A. ricorda come il percorso di Kant sia stato piuttosto tortuoso, fin dai primi tentativi di Kant, all'inizio del periodo critico. Di queste soluzioni restano tracce in alcuni luoghi della Fondazione (1785) e delle Lezioni. Con la seconda Critica interviene poi la definizione organica della dottrina trascendentale dell'etica, alla quale s'impone di collegare anche la metafisica dei costumi. Così, quando questa operazione inizia a trovare esecuzione, numerosi sono gli elementi di frizione tra la dottrina trascendentale e la nuova dottrina metafisica. L'interesse di Ludwig si sofferma soprattutto sul concetto della personalità e sul carattere del soggetto morale, che vengono costruiti a partire dal concetto di causalità “per libertà” (causa libera), rimandando alla questione di un mondo intelligibile i cui esseri possono essere considerati colegislatori morali. L'A. oppone la dimensione di questo mondo, o regno dei fini, rispetto al mondo fenomenico del diritto, in cui l'elemento essenziale resta invece la coazione. Ne segue la tendenza, simile a quella di altri autori vicini al movimento della filosofia pratica contemporanea, a porre il concetto del diritto in stretta relazione al problema dell'autorizzazione, svuluppando un noto luogo della sezione del diritto privato.

Sul problema dell'intrpretazione politica della dottrina del diritto kantiana è impegnato invece il saggio di Thomas W. Pogge, dal titolo La Dottrina kantiana del diritto è un 'liberalismo comprensivo'? (pp. 133-58). L'A. si interroga sulla conformazione della filosofia politica kantiana, e in particolare si domanda se essa possa davvero essere considerata un liberalismo comprensivo (comprehensive liberalism). Naturalmente, il punto di confronto è la nota tesi di Rawls (sviluppata a partire da un saggio del 1985), alla quale ha fatto seguito una precisa linea di scuola. Contro la versione rawlsiana del liberalismo di Kant, Pogge nega che nel filosofo tedesco sia necessaria una integrazione del concetto di libertà per arrivare alla "piena autonomia", e che pertanto la dottrina della libertà individuale (di natura essenzialmente negativa) che ci consegna la Dottrina del diritto (soprattutto nei paragrafi dell'introduzione) sia sufficiente per l'individuazione del reale impianto teorico-politico kantiano. Pogge, dunque, sostiene che il liberalismo kantiano non sia affatto un liberalismo comprensivo, una dottrina politica che si iscrive all'interno di una precisa concezione filosofica, finendone per rappresentarne i presupposti di valore. Avendo sposato la tesi opposta, invece, Rawls riteneva che il liberalismo di Kant restasse distante da una "concezione politica" del liberalismo e della giustizia; essendo fondato sul modello di un consenso per sovrapposizione, la superiorità del liberalismo politico era testimoniata dal fatto che, in ultima analisi, quest'ultimo poteva conciliarsi con una visione comprensiva del mondo, mentre non poteva avvenire il contrario (134-35).

Come si è detto, Pogge nega la validità di una tale prospettiva, prendendo come punti di riferimento alcuni fuochi concettuali: il primo riguarda la costruzione del concetto del diritto, per il quale il problema che viene in primo piano è quello della libertà individuale, interpretata qui come libertà di scelta (choice). L'A. precisa che, in questo caso, il concetto di scelta non identifica una "decisione", ma l'"ambito di controllo" personale; inoltre, il controllo deve essere preso in senso diacronico, cioè dev'essere riferito all'intero arco della vita individuale. Insieme, queste due condizioni individuano il senso della libertà esterna (p. 137).

Il secondo nodo interpretativo è il concetto di "universalità", caratteristico della legge giuridica kantiana: in questo caso, Pogge interpreta l'universalità come "generale applicazione", negando il suo riferimento al "senso più forte che comprende anche l'uguaglianza delle persone sotto la legge" (p. 137). L'A. pare orientarsi verso una distinzione interna al concetto del diritto, secondo la quale, in accordo col suo significato debole, quest'ultimo diverrebbe lo strumento insieme inclusivo ed esclusivo di condizioni atte a garantire l'ambito della libertà esterna. In assenza di restrizioni al mantenimento della sicurezza comune, il diritto implicherebbe dunque una "distribuzione Pareto efficiente della libertà esterna" (p. 139). A conferma di questa interpretazione, Pogge adduce la nota definizione kantiana dello "stato giuridico" (Rechtszustand). Da queste premesse l'A. si domanda quale possa essere l'autentico significato della Rechtslehre, tentando di reinterpretare in modo conforme il "principio universale del diritto".

Molto interessante risulta lo studio del § C della introduzione alla Rechtslehre, nel quale Kant tratta, appunto, del principio universale del diritto. Proprio in queste pagine Pogge ritrova l'argomento del liberalismo "non comprensivo" di Kant, mettendo in rilievo il procedimento di costruzione del concetto del diritto come legge della coesistenza degli arbitri, in opposizione all'idea della costruzione di un sistema di volontà sulla base di un fondamento egualitario. A questo scopo l'A. fa riferimento, come abbiamo detto, alla interpretazione debole del concetto di universalità, dalla quale consegue il ridimensionamento delle pretese normative del principio universale del diritto. Kant stesso aveva tentato di formulare questo principio come un vero e proprio imperativo, ma la sua fondazione si scontra - e su questo fatto Pogge rinsalda la propria lettura - con alcuni problemi sostanziali. Sulla base di tali problemi, lo stesso Pogge tenta la riformulazione della filosofia giuridica kantiana mettendo in rilievo quel che potrebbe essere definita la 'tecnica' del diritto, o - come egli si esprime - il "gioco della Rechtslehre" (pp. 142-44).

Il tratto distintivo del lavoro di Pogge è l'aver ricondotto la costruzione kantiana all'interno della teoria della scelta pubblica. Come già Ludwig, l'A. è costretto perciò a confrontarsi con un materiale testuale che, fatta eccezione per alcune linee guida fondamentali, non ci dice molto sui dettagli del procedimento di costruzione impiegato da Kant. Queste letture devono allora procedere per conto proprio, facendo ricorso a un'ampia interpretazione e a numerose ipotesi di lavoro. D'altra parte, se è vero che Kant aveva associato più volte il diritto alla matematica, il rischio di incorrere in sovra-interpretazioni non può essere mai interamente evitato. Partendo dai presupposti della teoria della giustizia, inoltre, si può incorrere nel pericolo -forse ancora più grave del primo- di identificare il senso kantiano del diritto con il metodo contrattualista che egli aveva impiegato per spiegare la genesi della legge civile.

Sugli esiti propriamente politici di una simile lettura di Kant ci sarebbe molto da scrivere; qui ci limitiamo a ribadire che in questo saggio resta ben salda l'interpretazione della libertà giuridica secondo il canone della tradizionale libertà negativa "liberale" (libertà come indipendenza esterna o non-interferenza). Come abbiamo scritto, Pogge imputa a Rawls l'errore di aver condotto Kant al di fuori della tradizione del pensiero liberale, e agli altri autori che lo hanno preceduto e seguito nel far riferimento alla prospettiva dell'uguaglianza e della libertà positiva (autonomia morale) (p. 148, in part. cfr. n. 32). Se da un lato sono interessanti le conclusione che Pogge trae dal fatto che la Rechtslehre kantiana "presuppone molto meno" (p. 149) di una filosofia morale fondata sulla prospettiva dell'idealismo trascendentale, dall'altro tutto ciò potrebbe non condurre necessariamente a un concetto del diritto risolto in una teoria etica neutrale. Allo stesso modo, l'affermazione che il diritto non fa alcun appello a una "cultura pubblica" presente nella società non è priva di problemi: è vero che Kant non concepisce la "sfera pubblica" nel modo in cui ce la presenta Rawls, ma è vero anche che il diritto non risulta privo di una forte contiguità con quanto Kant definisce "concetto trascendentale" della pubblicità, e in ultima analisi una natura 'pubblica' sembra doverlo riguardare necessariamente (e problematicamente). Infine, non è possibile dimenticare che il filosofo aveva presentato la metafisica dei costumi come una philosophia practica universalis, conferendo una precisa intenzionalità sistematica a una tale definizione (sulla quale la ricerca ha insistito negli ultimi anni). Almeno nei programmi, questo riferimento asseconda dunque la prospettiva della Fondazione, che dal supremo concetto della libertà intendeva muovere per trovare il fondamento dell'intero mondo morale.

Se dal punto di vista trascendentale il supremo principio del mondo pratico non può che essere il concetto di autonomia morale, il problema della costruzione del diritto non cessa di creare difficoltà. E' lo stesso Kant a ricordarlo, allorché si riappropria della definizione 'positiva' della libertà, applicandola in senso politico alla forma di governo repubblicana. Così avviene, ad esempio, sia nella Pace perpetua, sia nella stessa Rechtslehre. Il fatto che queste sovrapposizioni creino ulteriori complicazioni è un discorso che qui possiamo tralasciare. Tuttavia, pur accettando la prospettiva della difficoltà della deduzione sistematica del diritto dall'autonomia morale, non è immediato concordare con la tesi della piena adesione allo schema della neutralità liberale. Né ci pare sia risolutivo il riferimento addotto dall'A. al noto passaggio dello scritto del 1795, nel quale Kant spiega la preferibilità dell'ordinamento repubblicano anche per "un popolo di diavoli, purché razionali". Anche in questo caso, l'argomento impiegato per spiegare la 'non comprensività' della posizione di Kant non è privo di acume: la repubblica si può difendere da diverse prospettive di valore, cioè tanto da quella del favore morale per la libertà degli uomini, quanto da quella immorale e utilitaristica dei diavoli razionali (p. 149). Ma anche in questo caso, a rileggerle bene, le parole del filosofo ci sembrano rinviare a un'idea diversa, che potremmo sintetizzare nel modo seguente: se il problema dell'istituzione di un giusto ordine politico - la società bene ordinata - può essere risolto anche da diavoli intelligenti, il valore e il fondamento razionale dello stato repubblicano si pone sempre a un livello normativo superiore rispetto a quello 'prudenziale', e alla sua logica dell'interesse. L'idea di repubblica coinvolge così il piano deontologico - in questo scritto molto più che altrove - e pertanto il concetto di ragion pratica.

La persistenza del nocciolo duro dei problemi interpretativi posti dalla relazione tra etica e diritto non fa che ribadire la difficoltà di leggere un grande autore come Kant. Nelle pagine conclusive del saggio, lo stesso Pogge si confronta con la multiformità delle affermazioni del filosofo, come il già ricordato luogo dell'introduzione alla Metafisica dei costumi (p. 150). Pogge ribadisce che la tesi dell'indipendenza della Rechtslehre dal corpus morale non viene confutata neppure ammettendone l'unità sistematica con la "parte restante della sua [di Kant n.d.r.] filosofia" (Ibid.), perché se è vero che chi accetta la morale trascendentale deve accettare la Rechtslehre, non avviene però il contrario. Di conseguenza, per Pogge si può accettare la dottrina del diritto senza accettarne i presupposti trascendentali. Ma a questo punto, si potrebbe obiettare, una tale dottrina verrebbe a perdere i tratti della filosofia peculiarmente kantiana, e non potrebbe più essere distinta da una qualsiasi altra concezione liberale del diritto e dello stato. La posizione del 'liberalismo' di Kant coinvolge così uno spettro molto più ampio di questioni, che vanno ben oltre lo studio del "gioco" della libertà esterna e coinvolgono i requisiti sostanziali dell'idea di repubblica (che pone l'enfasi sulla divisione dei poteri), e ancora il rapporto tra libertà negativa e libertà positiva all'interno dei princìpi del diritto statuale; in ultima analisi, il 'liberalismo' di Kant ci pare un tema tuttora molto aperto. Pertinenti ci paiono infine le considerazioni sull'interpretazione della "tesi dell'indipendenza" tra etica e diritto che l'A. svolge nell'ultima sezione (§ V), a proposito della critica di Wolfgang Kersting a Julius Ebbinghaus.

Lo studio di Pogge indica una terza via per l'interpretazione del Kant 'politico' che non è priva di interesse; alle volte si ha però l'impressione che egli si trovi molto più a proprio agio con il linguaggio e gli strumenti concettuali della teoria politica piuttosto che con quelli della filosofia. Questi ultimi,tuttavia, in molti casi si rivelano insufficienti a ricondurre il peculiare profilo della filosofia critica kantiana a un coerente modello politico. Per questa ragione, all'interprete non resta che rassegnarsi alla complessità che l'individualità di ogni grande filosofo consegna a coloro che ne andranno a ripercorrere il pensiero, anche se resta pur sempre la scelta di non concedere alle categorie esegetiche l'ultima parola.

A concludere la sezione dedicata al diritto, facciamo riferimento al lavoro di Katrin Flikschuh. L'A. si sofferma sull'analisi del problema dei desideri nella Tugendlehre kantiana (I desideri kantiani: libertà di scelta e azione nella 'dottrina del diritto'). In particolare, il saggio della Flikschuh, una delle giovani studiose più interessanti della internationale Kant-Forschung, si sviluppa attraverso il confronto della teoria dei desideri e dei moventi con la teoria hobbesiana delle passioni. L'A. segue l'indirizzo di ricerca che mette a confronto Kant e l'empirismo, che già da anni suscita un notevole interesse anche nel nostro paese. Dopo aver posto in rilievo le differenze fondamentali tra la teoria di Hobbes e quella di Kant, cioè il fatto che a differenza del primo, il secondo si allontana da una prospettiva "economica" della razionalità pratica, il saggio si concentra sull'analisi degli atti di volontà. Ciò che interessa a Hobbes è soprattutto la "facoltà della deliberazione" (p. 186): "Hobbes si riferisce alla deliberazione come a un tipo di giudizio tra desideri concorrenti e avversioni, che coinvolge una ponderazione delle passioni e un calcolo delle conseguenze" (ibid.). Al contrario, Kant valuta il desiderio come una "capacità intellettiva" fondata sulla base del controllo razionale dell'azione da parte dell'egente. L'A. considera così il rapporto tra i due pensatori come emblematico delle due vie fondamentali intraprese dalla teoria etica moderna. Rispetto all'etica antica, che si basava su una valutazione oggettiva del discernimento tra virtù e vizio, l'etica moderna si fonda su un patrimonio comune: la cognizione della vita come la capacità di un essere razionale di agire in riferimento ai propri desideri.

Passiamo agli altri contributi del volume, che affrontano i temi relativi alla seconda parte della metafisica dei costumi: l'etica. Anche la parte del volume dedicata alla Dottrina della virtù è molto corposa e ricca di alcuni saggi che meriterebbero una discussione molto più approfondita di quanto sia possibile fare in questa sede. Tra loro vale la pena ricordare almeno Thomas E. Hill Jr. (Pena, coscienza e valore morale, pp. 233-53), il curatore Mark Timmons, Andrews Reath (Autolegislazione e doveri verso se stessi, pp. 349-70), Stephen Engstrom (L'interna libertà della virtù, pp. 289-315), e Nelson Potter (Doveri verso se stessi, internalismo motivazionale e autoinganno nell'etica di Kant, pp. 371-89).

Ci soffermiamo brevemente solamente sul saggio di Timmons, dal titolo Motivazione e giusto agire nel sistema etico di Kant (pp. 255-88). Si tratta di uno studio piuttosto impegnativo sul ruolo esercitato dalle motivazioni nella dottrina etica kantiana. Nella prima parte, l'A. passa in rassegna il significato dei motivi all'interno della teoria dell'imperativo categorico, presentando al contempo la "tesi dell'indipendenza" (IT), cioè la tesi che assegna valore morale all'azione indipendentemente dai motivi che spingono alla sua realizzazione. Questa prospettiva, ricorda Timmons, accomuna diverse scuole filosofiche: da quella aristotelica si giunge all'utilitarismo e, al consequenzialismo nel suo complesso (Mill, Sidgwick e Moore), fino al doentologismo (W.D. Ross). In anni a noi più vicini, la tesi dell'indipendenza è stata ripetutamente criticata da autori come Michael Gorr, Marcia Baron, Onora O'Neill e Barara Herman; costoro - in modo diverso - le hanno contrapposto la "tesi del contenuto motivazionale" (Moral Content Thesis). Attraverso un'ampia discussione delle ragioni proprie di queste due opposte interpretazioni, l'A. sposa una via intermedia, da un lato criticando la tradizionale concezione della irrilevanza dei motivi per la definizione dello statuto deontico dell'azione, dall'altro proponendo un'ampia revisione degli argomenti impiegati dai fautori della Moral Content Thesis. Di queste ultime, egli discute in modo approfondito le ragioni dottrinali (pp. 269-75) e concettuali (pp. 275-78). Tra le proposte di Timmons per una generale reinterpretazione del ruolo delle motivazioni nell'etica kantiana segnaliamo: l'idea che dare troppo rilievo ai motivi comporti necessariamente un impoverimento dello statuto deontico dell'etica kantiana (p. 279); l'indebolimento della funzione dell'imperativo categorico; l'inadeguata identificazione del rapporto tra i due propositi fondamentali che Kant si pone quando scrive la Dottrina della virtù: vale a dire, da un lato l'individuazione di un sistema di doveri non coercibili esternamente, dall'altro la promozione del carattere morale. In quest'ultimo caso, Timmons ricorda il favore di Kant per tutti i moventi che permettono di educare alla virtù (p. 280), come nel caso dei doveri di benevolenza, ma al contempo mette in rilievo che ciò non significa voler slegare il fondamento dell'etica dal semplice dovere per il dovere. A rafforzare questa lettura viene citata la distinzione che Kant formula nell'introduzione alla Tugendlehre tra ciò che è materiale e ciò che è formale nel dovere di virtù (p. 281). Timmons ritiene che nel caso delle interpretazioni conformi alla MCT non sia più possibile mantenere l'opposizione moralità-legalità, alla quale invece Kant continua a credere. In conclusione, l'A. difende la rilevanza dei contenuti motivazionali, ma per ragioni diverse dagli altri autori; tra queste ultime, ci sembra particolarmente significativa la riduzione della dottrina dell'autonomia al concetto di promozione del personalità, cui si perviene sviluppando la seconda formula dell'imperativo categorico e la relazione di quest'ultima con l'idea dell'umanità come fine (p. 286).

Una menzione a parte merita invece il contributo di un'altra studiosa di rilievo nel panorama della filosofia internazionale, Onora O'Neill. Renderei il titolo del suo saggio nel modo seguente: Mettere in pratica i principi: tra dovere e azione (pp. 331-47). Il lavoro è molto interessante, e tocca direttamente uno dei punti critici della filosofia pratica kantiana, che non a caso ha offerto il fianco ai numerosi critici di una filosofia morale a carattere deontologico; tra i maggiori, la stessa O'Neill ricorda: Peter Winch, John McDowell, David Wiggins, Bernard Williams (p. 332). Il nodo della questione è la possibilità di risolvere il conflitto tra doveri grazie a una distinzione tra regole d'azione e massime d'azione, le quali rimandano a una ulteriore distinzione tra normatività legale e normatività peculiarmente etica.

L'interesse dell'A. si concentra in primo luogo sulla ricostruzione del significato del giudizio pratico, distinto dalle due tipologie fondamentali del giudizio teoretico: determinante e riflettente (pp. 334). Secondo O'Neill, il problema fondamentale che caratterizza questa forma del giudizio è costituita dall'indeterminatezza che esso porta con sé. Nel giudizio pratico, infatti, non siamo di fronte al problema della sussunzione di un caso particolare sotto la regola, né a quello della scelta del "più appropriato tra i molti possibili princìpi" (p. 334). Al contrario, il tema del giudizio pratico investe direttamente il contenuto prescrittivo dell'azione (p. 335). Questo, secondo l'A., rivoluziona il problema dell'indeterminazione, perché non si è più di fronte a un'attività di valutazione di segno 'ascrittivo' o 'introspettivo', per le quali il tema dell'agente nella sua peculiarità resta sempre sullo sfondo, mentre s'impone una determinata costruzione del mondo e dei suoi oggetti, quindi del particolare. Niente di tutto questo; l'elemento peculiare del giudizio pratico è invece "il passaggio all'azione da uno o più princìpi, incorporati in qualche massima" (p. 335).

Sulla base di questa ricostruzine l'A. passa in ressegna i luoghi nei quali Kant tratta del tema dei conflitti tra doveri, mettendo in luce la loro articolazione nella sistematica della metafisica dei costumi. E' vero che Kant, precisa la O'Neill, sostiene che un conflitto di doveri e di obbligazioni è inconcepibile, ma egli aggiunge anche che possono però presentarsi conflitti tra fondamenti di determinazione dell'obbligazione (Verpflichtungsgruende), o - come aggiunge lo stesso Kant - tra rationes obligandi. Secondo l'A., queste ultime possono essere rese meglio con il termine obligating reasons, che rimanderebbero direttamente al confronto tra diversi princìpi e ragioni morali, così come ce li presenta il mondo etico del nostro tempo, che si confronta con la pluralità dei valori e delle concezioni del mondo. Seguendo questo filo conduttore, il saggio si chiude con un paragrado dedicato al ruolo della 'casistica' nell'etica kantiana.

Il giudizio della O'Neill sul valore della casistica morale è negativo. Il carattere 'aperto' all'azione, che caratterizza il giudizio pratico, impedisce a Kant di risolvere la propria teoria etica in una fredda casistica, al pari di quella fatta propria dai gesuiti, verso la quale il filosofo appare sempre diffidente e a tratti dichiaratamente ostile (p. 344). Pertanto, la molteplicità e la pluriformità delle ragioni obbliganti non ci permettono di risolvere la scelta morale in "algoritmi" per la soluzione dei conflitti etici. Giustamente, la O'Neill ricorda come la dottrina del metodo della metafisica dei costumi affermi che la casistica non è una dottrina, bensì una pratica. Pertanto, sciogliere la complessità del nostro mondo morale non è un'attività che si può risolvere attraverso un 'metodo comprensivo' che, al momento giusto, ci guida verso le giuste soluzioni. Le conclusioni ci ricordano che, nonostante Kant abbia spesso rivendicato la chiarezza del dovere morale, le ragioni etiche si presentano raramente sotto la forma di evidenze morali; al contrario, esse richiedono impegno, discussione e anche un certo grado di "risposte attitudinali", che lasciano sempre uno spazio per l'errore, e perciò per sentimenti come la riprovazione e il rimorso. Di conseguenza, in una teoria etica entra in gioco l'importanza dell'educazione alla conoscenza e all'autodisciplina. Queste ultime hanno anche conseguenze per il mondo in cui si esercita la convivenza comune, perché spingono gli uomini al perseguimento di ideali come la costruzione di istituzioni politiche più giuste.

Come anticipato, sui molti altri lavori di questa raccolta non possiamo dire. Si può invece ribadire che, nel complesso, il volume conferma quanto già anticipava il curatore nella presentazione: oltre che un manuale da consultare per l'approfondimento della filosofia morale kantiana, nella sua intera estensione sistematica, questo lavoro offre senz'altro ottimi esempi di percorsi interpretativi. Si tratta di una conferma della vitalità di Kant, come un classico dal quale la filosofia contemporanea continua a trarre rinnovate possibilità di pensiero.

Il testo recensito

AA. VV. Kant's Metaphysics of Morals. Interpretative Essays. Oxford Un. Press. Oxford-New York. 2002. A cura di Mark Timmons.