Bollettino telematico di filosofia politica

Online Journal of Political Philosophy

Home > Immanuel Kant: sette scritti politici liberi

Annotazione della curatrice

Sommario

Teoria e pratica: la delimitazione del problema
Kant contro Garve: perché essere morali?
Kant contro Hobbes: lo stato secondo ragione
Kant contro Mendelssohn: che cosa possiamo sperare?

Teoria e pratica: la delimitazione del problema

Oggetto della polemica kantiana sono le tesi dello scrittore irlandese Edmund Burke, a cui il testo allude con la perifrasi «il gentiluomo che discetta così sfacciatamente di teorie e sistemi» (277 e nota). Kant, che fa il nome degli altri autori oggetto delle sue critiche - Garve, Achenwall, Hobbes, Moses Mendelssohn -, sembra disconoscerne la dignità di avversario filosofico. La disputa racchiude in sé una divergenza politica in merito alla Rivoluzione francese: mentre Kant confida nella capacità delle idee di migliorare il mondo, Burke, nelle sue Reflections on the Revolution in France (1790) afferma che le astrazioni esercitino una violenza insensata, foriera di conseguenze rovinose, sul tessuto di tradizioni e pregiudizi che costituisce l'ordine della società umana.

L'introduzione del saggio delimita e definisce la sfida che Kant ha intenzione di affrontare. Questa delimitazione è già parte della confutazione dell'anti-intellettualismo conservatore di Burke, perché riduce, preliminarmente, i casi possibili di conflitto fra teoria e pratica.

1. La teoria è un complesso di regole pensate universalmente, senza considerare le loro condizioni applicative: la pratica non è «ogni affaccendarsi», bensì l'azione volta a realizzare un fine secondo determinati princípi generali (275). Se la pratica fosse semplicemente un affaccendarsi senza nessun principio e fine, non sarebbe neppure confrontabile con la teoria: esse, dunque, sono paragonabili solo perché entrambe contengono delle regole non singolari, bensì universali o almeno generali. Il confronto fra teoria e pratica, perciò, può svolgersi soltanto sul terreno della teoria. Si tratterà di capire come si costruiscono e si legittimano rispettivamente le regole nate dalla teoria e quelle ispirate dalla pratica.

2. Per applicare una regola, devo decidere se la situazione a cui mi trovo davanti sia o no riconducibile al caso generale da essa codificato. Questa operazione, che si chiama sussunzione, è compiuta dalla facoltà di giudicare o Giudizio (Urteilskraft), oggetto della terza e ultima delle critiche kantiane: la Critica del Giudizio (1790). «Il giudizio, generalmente considerato, consiste nella congiunzione di un soggetto con un predicato. Giudizio determinante 178 è quello che si ha – si pensi alle scienze fisico-matematiche – allorché al soggetto viene applicato un predicato generale tratto da leggi a noi note. In altre parole si può dire che in esso al particolare viene applicato un universale preso da altrove e a noi già noto: il particolare viene sussunto sotto un universale già noto. Noi conosciamo già l'universale e dobbiamo sussumere sotto di esso il particolare; abbiamo così il giudizio di cui si occupa la Critica della ragion pura, che è detto determinante perché pone un'impronta su ciò che noi consideriamo. Al particolare, che assumiamo con le forme della nostra sensibilità, viene conferita un'impronta universale, ed a ciò provvedono le categorie, 179 che agiscono spontaneamente.» 180 Usa per esempio la facoltà di giudicare il medico che deve fare una diagnosi, o il giurista che deve stabilire quale articolo del codice sia pertinente per il caso concreto di fronte a lui. Dal momento che questa facoltà si occupa di ricondurre un particolare sotto una regola, essa non può venir ridotta interamente a regole generali, altrimenti non si raggiungerebbe mai il particolare o, come dice Kant, si andrebbe all'infinito. Quando un medico, pur avendo studiato, sbaglia una diagnosi o un avvocato non riesce a individuare la fattispecie pertinente al suo caso, pur conoscendo il codice a memoria, il difetto non sta nella teoria, ma solo nel loro Giudizio. Non abbiamo a che fare con un contrasto fra teoria e pratica, ma semplicemente con la stupidità degli esseri umani. 181

3. La teoria può apparire insufficiente quando ci si trova di fronte a nuove situazioni non ancora riconosciute dalla scienza. Per esempio, quando un medico non riesce a diagnosticare una malattia ancora ignota alla sua scienza, non assistiamo propriamente a un fallimento della medicina: il difetto sta proprio nel fatto che essa non ha ancora teorizzato, cioè classificato e ridotto a regole, quella nuova malattia. Ma il vizio non si risolve eliminando la teoria, bensì accrescendola fino a farle abbracciare la patologia sconosciuta (275).

4. Il problema del rapporto fra teoria e pratica non si pone nelle discipline che si occupano non degli oggetti dell'intuizione, ma di meri concetti, come la matematica e la filosofia. L'intuizione è la conoscenza immediata, che per Kant può essere data solo dai sensi. Se gli oggetti del sapere sono semplici costruzioni concettuali e deduzioni, un suo confronto con l'esperienza sensibile è inutile o addirittura controproducente (276).

5. Sul piano soggettivo, è ancora tollerabile che la critica alla teoria in nome della pratica venga da una persona ignorante, che non ha gli strumenti per comprendere e spiegare quello che fa. Ma è ridicolo e contraddittorio che questa critica sia fatta propria da chi è teorico di professione: una teoria che non può essere applicata o è sbagliata - il teorico, cioè, non sa fare il suo mestiere - oppure è inutile (276).

Tutti questi argomenti riguardano propriamente le discipline tecniche e scientifiche; la tesi di Burke, però, si applica all'ambito dell'etica, della politica e del diritto, di cui si occupa, kantianamente, la ragion pratica. Qui il "detto comune" gioca un ruolo insidioso. Ed è qui che Kant concentra la sua trattazione, presentando un argomento oggettivo e uno soggettivo:

  1. Oggettivamente, possiamo costruirci degli obblighi morali solo sulla base del presupposto della nostra libertà, cioè della possibilità di fare o no il nostro dovere. Nello stesso momento in cui scopriamo la legge morale, scopriamo necessariamente anche la possibilità di metterla in atto. «Soltanto in una teoria che sia fondata sul concetto del dovere si elimina interamente la preoccupazione per la vuota idealità di questo concetto. Infatti non sarebbe dovere mirare a un certo effetto della nostra volontà, se questo non fosse possibile anche nell'esperienza (lo si pensi o come compiuto ora, o come in continua approssimazione al compimento)» (276-277).

  2. Soggettivamente, l'onore dell'essere umano sta nella sua libertà, cioè nella sua capacità di essere qualcosa di più di una macchina. Questa libertà, - platonicamente prima che illuministicamente - consiste, ancora nello spirito della filosofia antica, nell'attività disinteressata della ragione di «un essere fatto per stare dritto e contemplare il cielo» (277).

Kant include nella morale sia l'etica sia il diritto (naturale, ovvero secondo ragione). Entrambe le discipline rispondono alla domanda "che cosa devo fare?". L'etica, però, affronta la questione dal punto di vista, interiore, della moralità delle intenzioni; il diritto invece dal punto di vista, esteriore, della legalità delle azioni. In questo saggio, la prima parte è riservata all'etica, mentre la seconda e la terza sono dedicate al diritto pubblico, rispettivamente interno e internazionale. 182

Kant contro Garve: perché essere morali?

L'interlocutore di Kant, Christian Garve, esponente della Popularphilosophie, era un pensatore eclettico che aveva tradotto e divulgato Cicerone, Ferguson, Burke e molta letteratura illuministica britannica. Era un illuminista molto diverso da Kant. 183 Il divulgatore, mediando fra la scienza e la cultura popolare, si mette nella posizione di un tutore; Kant, di contro, presentando al pubblico i suoi difficili scritti senza curarsi di "volgarizzarli", sembra rivolgersi a un lettore capace di camminare da sé. Ma la sua risposta a Garve mostra quale sia il suo spirito, a dispetto delle catene tecnologiche che lo legavano al mondo della stampa, alle sue autorità centrali e alla sua folla di lettori solitari: quello che è difficile per un singolo, non lo è per un pubblico dotato degli strumenti di un uso collettivo dell'intelligenza. In un caso come questo, ogni distinzione fra cultura "alta" e divulgazione suona paternalistica.

Il confronto di Kant con Garve ha un filo conduttore unitario: Garve crede che collegare alla legge un principio materiale - l'interesse a essere felici - ci motivi più efficacemente al comportamento morale; Kant, di contro, pensa che un'azione possa dirsi libera, e quindi essere valutata nel suo merito o nella sua colpa, solo se si assume almeno come possibile seguire disinteressatamente la legge della ragione, in quanto principio formale. Infatti, chi agisce spinto dall'incentivo della ricerca della felicità non segue le leggi della libertà, bensì quelle, meccanicistiche, della natura.

In una nota (285), Kant cita con approvazione una confessione di Garve: «La libertà, secondo la sua più intima convinzione, rimarrà sempre irrisolvibile e non sarà mai spiegata». Come facciamo a dire qualcuno libero? Nella prospettiva kantiana, noi siamo in grado di conoscere solo quanto sappiamo spiegare, cioè l'esperienza sensibile che riusciamo a rendere intersoggettiva e sperimentalmente verificabile riducendola sotto le categorie. Spiegare, però, significa collegare, mostrare la causa o, più genericamente, l'humus che ha condotto a un determinato accadimento. Il nostro sapere teorico, che connette i materiali sensibili entro nessi deterministici, non è dunque in grado di concepire l'esperienza della libertà. La nostra ragione, però, ci mette di fronte alla legge morale, la quale ci si mostra ogni volta che riusciamo a dare una risposta razionale, cioè universalmente valida, alla domanda "che cosa devo fare?". E una simile questione ci si può presentare solo se siamo liberi: una pietra che cade da una torre non è in condizione di chiedersi se deve farlo o no, perché è soggetta solo alle leggi della natura e non a quelle della libertà. La libertà, dunque, è la ratio essendi della legge morale, ma per noi la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. In questo senso, la libertà può essere scoperta da noi solo in base a princípi meramente pratici.

Questi princípi, però, non possono essere tecnico-pratici, alla maniera degli imperativi ipotetici, 184 la cui razionalità è soltanto strumentale. Infatti gli imperativi ipotetici - la cui forma è "se vuoi x devi fare y" - impongono di compiere una certa azione soltanto in quanto essa è rappresentata come un mezzo per attuare un certo fine, nell'ipotesi che noi lo desideriamo. L'imperatività della regola è condizionata dalla volizione di uno scopo che possiamo o no ritrovare in noi, come enti naturali; dipende, cioè, dal modo in cui siamo dati a noi stessi. L'imperativo ipotetico non può essere fino in fondo una legge della libertà.

Una legge della libertà - pratico-morale - deve essere fondata esclusivamente sull'autonomia della ragione: deve dunque essere universale e indipendente dall'esperienza. Non deve dipendere da come siamo fatti, per non cadere in contraddizione con la libertà, che è sua condizione di possibilità, ma da come vogliamo che il mondo diventi tramite la nostra azione. L'uomo, però, non è solo un soggetto puramente razionale, ma anche un oggetto di esperienza sensibile, sottomesso al meccanismo della natura. Per questo la legge della ragione gli si presenta come un imperativo, un comando, con una pretesa di validità assoluta, al di sopra di tutti i suoi impulsi naturali: l'imperativo categorico. La natura di questo comando è esclusivamente formale, perché tutti i nostri fini materiali ci vengono da come siamo stati plasmati, nel nostro carattere sensibile, e non dalla nostra libertà.

Le tre formulazioni dell'imperativo categorico

Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant produce tre formulazioni dell'imperativo categorico:

  1. «Agisci solo secondo quella massima che puoi nello stesso volere divenga una legge universale» (421)

  2. «Agisci così da usare l'umanità 185 sia nella tua persona sia in ogni altro sempre e a un tempo come fine e mai meramente come mezzo » (429)

  3. Agisci «così che la volontà con la sua massima possa nello stesso tempo considerarsi come universalmente legislatrice» (434)

Tramite la legge morale un agente libero sceglie di comportarsi come se fosse il legislatore interamente responsabile del mondo che la sua azione contribuisce a creare. La forma della sua legge - l'universalità - è quella propria della ragione. Il test della prima formulazione dell'imperativo serve appunto per valutare se la massima della mia azione, cioè la regola personale che userei per me, è universale e conforme a ragione, oppure solo particolare, e quindi incapace di produrre una giustificazione morale che valga per tutti. La legge della ragione pratica, accanto al vincolo dell'universalità, ha anche quello del rispetto per tutti gli esseri razionali, in quanto agenti liberi. Non esiste razionalità - e dunque non esiste universalità - senza autonomia: la legge morale non può coerentemente negare la libertà degli esseri razionali trasformandoli in mezzi per i fini altrui, perché negherebbe, così, la sua stessa possibilità.

La misura di Garve (278-281)

La sezione si apre con un confronto fra l'interpretazione che Garve dava della teoria morale kantiana (punti a, b) e l'autointerpretazione proposta da Kant stesso (punti A, B).

Garve semplifica la posizione del suo interlocutore nel seguente modo: gli esseri umani, se vogliono essere morali, non devono affatto curarsi della loro felicità, perché il loro scopo supremo è soltanto l'osservanza della legge morale (a); però questa morale eroica può ricevere solidità dal punto di vista delle motivazioni solo se a essa si attaccano l'esistenza di Dio e la speranza di una vita futura (b). In altre parole: quello che Kant aveva cacciato dalla porta, lo deve far rientrare dalla finestra, per offrire alla sua astrattissima legge morale un fondamento motivazionale concreto.

In questa esposizione vengono usati due termini tecnici - scopo finale e scopo ultimo - che meritano di essere chiariti. Lo scopo ultimo (Critica del Giudizio, § 83), che Kant identifica con la cultura, è lo scopo conclusivo, interno, della natura, quando la consideriamo come un sistema di fini, cioè non come un mero intreccio di concatenazioni causali, bensì come un tutto organico. Non c'è bisogno, in questo caso, della libertà: lo scopo ultimo è semplicemente ciò si trova in fondo al processo evolutivo: un animale divenuto culturale.

Lo scopo finale (Endzweck) è lo scopo supremo o incondizionato, che non ne richiede nessun altro come condizione della sua possibilità (Critica del Giudizio, § 84). Qui entra in gioco la libertà: per essere capaci di scopi finali non è sufficiente essere inseriti alla conclusione di un sistema evolutivo. Bisogna essere in grado di fare scelte disinteressate, che trascendono l'ordine naturale. Bisogna, in una parola, essere liberi nel senso morale del termine.

A Garve, Kant spiega che la sua morale non vuole imporre la rinuncia alla felicità, che è scopo naturale di ogni essere razionale finito. La felicità, scrive Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi (418) è un'idea che gli esseri razionali come una totalità assoluta, il massimo possibile del benessere; ma tutti i suoi contenuti sono empirici, determinati non dalla razionalità, bensì dalla finitezza, e variano di momento in momento e da persona a persona. Questo significa che, mentre non può essere negata la legittimità della ricerca della felicità, essa però non può fondare nessuna legge morale universale. Quindi: quando si deve valutare se un'azione è morale oppure no, dalla felicità bisogna fare astrazione (A). Non dobbiamo, cioè, prenderla in considerazione come motivazione valida per le nostre scelte: se lo facessimo, produrremmo regole mutevoli, soggettive e naturalisticamente determinate. Quello che rende felice me ora, può non rendere felici me o altri, domani.

Kant riconosce, però, che la morale deve rendere degni di felicità. Il sommo bene, cioè la realizzazione nel mondo dell'unione di virtù e felicità, è lo scopo finale della legge morale, e ciò spinge anche a credere praticamente in qualcosa che è teoreticamente indimostrabile: la possibilità di un signore morale del mondo e di una vita futura oltre la morte (B). A prima vista, Garve sembra non avere tutti i torti (b). Che bisogno ha Kant di aggiungere questi elementi, se non per confortare il suo soggetto, dopo avergli negato la felicità, con la remota speranza di un premio?

Quando deliberiamo sulla legge morale ci assumiamo la responsabilità di quello che facciamo di fronte all'universo, perché ci rappresentiamo come agenti liberi che fanno venire a essere un pezzo di mondo, dipendente dalla nostra scelta. Non ci interroghiamo sul nostro tornaconto come individui isolati, ma ci chiediamo, nello spirito della prima formulazione dell'imperativo categorico: come sarebbe un mondo in cui tutti si comportassero nel modo in cui deliberiamo di agire? Quando scegliamo la legge come legge del mondo, mettendo fra parentesi ogni nostro fine particolare, la nostra azione ha però, oggettivamente, uno scopo, proprio perché la nostra scelta è la scelta di un sistema. «Una volontà non può essere senza scopo» (B, nota): chi vuole la legge morale vuole un mondo che sia regolato interamente da quella legge, nel rispetto, entro i suoi limiti, di tutti i fini degli agenti liberi. Vuole, oggettivamente il sommo bene, come unione di virtù e felicità.

Ora, noi siamo esseri razionali ma finiti. La legge morale ci insegna a essere responsabili del mondo che contribuiamo a creare con il nostro agire. Ci insegna anche a trascendere la nostra naturalità, imponendoci di mettere fra parentesi i nostri interessi individuali per giustificare la nostra azione in una prospettiva universale. La nostra finitezza però ci limita: non siamo in grado di realizzare il sommo bene, che è una totalità la quale richiederebbe un controllo totale sul mondo. Né, tanto meno, possiamoassumerlo come nostro fine materiale, senza mettere a repentaglio la legge morale: diventerebbe infatti facile travalicare i suoi limiti in nome di una presunta finalità superiore che, nelle nostre mani finite, si contaminerebbe con il nostro interesse. Quindi: nell'autointerpretazione di Kant Dio e l'immortalità dell'anima non hanno la funzione di allettare all'osservanza della legge morale con la promessa di un premio futuro: chi seguisse la legge con questa prospettiva non si comporterebbe moralmente, perché avrebbe un movente egoistico, diverso dall'interesse per la legge stessa. Sono piuttosto - analogamente alla libertà - dei presupposti che dobbiamo postulare come oggetto di una fede pratica, cioè come condizioni di possibilità dell'attuazione della legge morale. Kant non dice: faccio quello che è giusto perché perché credo in Dio e spero in una ricompensa futura. Dice invece: nel momento in cui scelgo di fare il mio dovere anziché il mio tornaconto, mi comporto come se credessi in un signore morale del mondo in grado di realizzare il sommo bene. La fede morale nei postulati della ragion pratica (libertà, Dio, immortalità dell'anima) viene dopo la legge morale e non prima. Se l'ordine fosse invertito, avremmo eteronomia e mercimonio, ma non dovere.

Due concetti di bene (281-284)

Come si può confondere, nella valutazione della motivazione morale, l'azione compiuta per interesse con quella compiuta per dovere?

Nella parola "bene" convivono due significati che differiscono fra loro secondo la specie, cioè sono concettualmente disomogenei. Il primo è il bene nel senso di moralmente giusto, che viene scoperto nella legge incondizionata dalla ragione, o imperativo categorico. Il secondo è il bene nel senso dell'utile, di ciò che mi rende felice.

In quest'ultimo caso, io posso produrre una graduatoria quantitativa di azioni sulla base del loro esito più o meno felice: posso fare, in altre parole, delle distinzioni secondo il grado, e usarle per compiere la mia scelta. Non posso però usare questa graduatoria per stabilire quale sia il mio dovere. Il bene in senso di giusto differisce infatti secondo la specie dal bene in senso di utile. Quando mi interrogo su che cosa è corretto fare non mi sto chiedendo che cosa mi rende più felice. Qui per decidere, devo usare l'imperativo categorico, e soltanto dopo aver stabilito che cosa è giusto posso chiedermi quale, fra le azioni giuste, mi rende anche più felice. Infatti, se mi chiedessi in primo luogo che cosa mi è utile senza interrogarmi sul mio dovere, uscirei interamente dalla legge morale.

Esistono, però, stati di benessere più sofisticati di quelli conseguenti alla realizzazione dei propri desideri e interessi. Secondo i teorici del sentimento morale - come lo scozzese Francis Hutcheson -, la motivazione a comportarsi moralmente consisteva nella soddisfazione di aver fatto il proprio dovere. A questo eudemonismo raffinato, Kant obietta che una simile soddisfazione può aver luogo soltanto se una persona è già guidata dalla legge morale, perché la sua ragione ne ha riconosciuto l'autorità. Quindi la prospettiva del piacere dell'onestà non è una motivazione indipendente e preliminare rispetto a quella razionale, ma soltanto una sua conseguenza: il sentimento morale «non è causa, bensì effetto della determinazione del volere» (283). Non può quindi convincere nessuno a comportarsi onestamente, se non quelli già convinti, perché già onesti.

La testa e il cuore (284-289)

Rimane ancora una obiezione: anche se accettiamo la distinzione teorica fra il movente sensibile della felicità e quello intelligibile del rispetto per la legge, nel momento dell'azione queste astrazioni hanno poco senso perché i moventi si mescolano in modo inestricabile. Garve esprime la sua perplessità scrivendo che nella sua testa capisce benissimo la partizione ideale di Kant, ma non riesce a trovarla nel suo cuore (284).

Ora, è vero che dal punto di vista della psicologia empirica non sappiamo fino in fondo che cosa veramente ci ha motivato, perché dovremmo conoscere la totalità dei fattori che ci muovono, cosa, questa, impossibile per lo stesso carattere particolare e contingente dell'esperienza. Di contro, però, quando dobbiamo prendere una decisione e valutare la moralità di un'azione, riusciamo benissimo a distinguere fra una motivazione basata sull'interesse egoistico e una disinteressata. Si presume che Garve stesso, da persona onesta, suggerisce Kant con una vena di ironia, si comporti onestamente anche quando non ne trae un tornaconto. Bisogna, dunque, prendere le difese del suo cuore contro la sua testa (285): se Garve agisse davvero in coerenza con la sua teoria, si comporterebbe correttamente solo se e quando gli conviene - cioè non sarebbe affatto una persona onesta.

Di più: mentre la legge morale è chiara e semplice da scoprire, il calcolo prudenziale degli esiti felici o infelici è assai complesso e incerto. Kant lo spiega con un esempio famoso (286-287): se mi è stato dato del denaro in deposito, e io, in un momento successivo, mi trovo ad averne bisogno, lo devo restituire oppure posso tenerlo per me? Se cerco di risolvere la questione col calcolo prudenziale, non posso dare risposte assolutamente certe, perché esse dipendono dall'esperienza - che è particolare e contingente - e da un intreccio complicato di cause e casi che non può essere interamente dominato. Se invece s'interroga la legge morale, anche un bambino ottiene una risposta chiara, semplice e incondizionatamente certa: i depositi vanno restituiti.

Questa risposta si ricava sottoponendo il progetto di trattenere il deposito al vaglio dell'imperativo categorico, nella sua prima formulazione. Ipotizziamo che la nostra massima - il principio soggettivo del nostro agire - sia quella di trattenere il deposito qualora lo giudicassimo utile. Proviamo a universalizzarla, così: restituire i depositi è facoltativo. Ora, un deposito è una promessa del depositario al depositante, con la quale il primo si impegna a restituire il deposito al secondo. Una promessa, in generale, è un impegno vincolante nei confronti di altri, che il promittente sceglie liberamente di assumere. Dunque, dire che i restituire i depositi è facoltativo equivale ad affermare che un impegno vincolante non è vincolante, che una promessa non è una promessa. Quindi: la massima di non restituire il deposito non può essere universalizzata senza contraddizione ed è perciò immorale.

Per quanto i due moventi della felicità e della moralità appaiano mischiati nel nostro agire storico - in questo caso si può perfino concedere che prevalga l'egoismo - quando si tratta di giudicare le nostre motivazioni siamo perfettamente in grado di discernere e ammirare il comportamento disinteressato di chi fa il proprio dovere senza aspettarsi niente in cambio, dando prova di essere un uomo libero (287), e di rimanere freddi di fronte a chi persegue semplicemente il proprio tornaconto. Il cuore ha delle ragioni che la testa non sa riconoscere - soprattutto quando professa una teoria sbagliata.

Kant contro Hobbes: lo stato secondo ragione

La seconda e la terza sezione del Detto comune non si occupano più di etica, bensì di diritto: anche in questo caso, Kant mette in scena un contrasto tra ragione e felicità sulla legittimazione dell'ordine esteriore. Per quanto la trattazione di Kant abbracci un orizzonte teorico più ampio, il suo senso politico è chiaro: Kant prende posizione contro l'Ancien régime e a favore dei princípi, liberali, della costituzione francese del 1791.

Il patto costituzionale

La possibilità della legge morale implica che, anche nell'ordine esteriore, gli agenti morali debbano essere considerati come liberi. La società, pertanto, non può essere trattata come un dato naturale, ma deve essere legittimata come una costruzione. A questo scopo, Kant adopera lo strumento del contratto, già adottato dalla filosofia politica moderna per rilegittimare la società civile dopo la crisi della respublica christiana medioevale seguita alla Riforma protestante. Il contratto induce a rappresentare la società come frutto di un accordo fra volontà, sulla base di un ragionamento condiviso, a partire da uno stato di natura pre-sociale.

In generale, un contratto sociale è l'unione di più persone per un fine comune. A essa si aggregano tutti coloro che di fatto condividono quel fine, mentre chi non è d'accordo ne rimane fuori. Il pactum unionis civilis è un contratto sociale, ma con una qualifica speciale. Il suo fine, infatti, non è opzionale: è un fine incondizionato che ognuno deve avere, e cioè «il diritto degli esseri umani sotto leggi coercitive pubbliche, tramite le quali possa essere determinato a ciascuno il suo e possa essere assicurato contro ogni interferenza altrui» (289).

Lo scopo che tutti devono avere è la realizzazione di un sistema giuridico composto di leggi pubbliche - cioè valide e note per tutti - e coercitive. Se la società civile 186 fosse costituita sulla base di una comune ricerca della felicità, di scopi materiali i cui contenuti variano da individuo a individuo, gli esseri umani avrebbero l'opzione di non entrare in società, o di rimanervi solo finché fa loro comodo. Questa però, non sarebbe un'uscita definitiva dallo stato di natura: ai margini della società ci sarebbero sempre persone che, non essendovi entrate, avrebbero titolo a farsi giustizia da sé, anche con la forza; e perché qualsiasi membro della società civile che si trovasse soccombente in un processo avrebbe facoltà di tornare alla stato di natura per risolvere la questione a suo favore con la violenza o con la corruzione. Per questo, se si vuole che il proprio diritto sia amministrato civilmente da un giudice terzo che deliberi secondo leggi pubbliche coercitive e non dalle parti in conflitto di interessi - in quanto ciascuna è giudice in causa propria - non si può fare a meno di entrare nella società civile. Il pactum unionis civilis è dunque la condizione di possibilità dell'ordinamento giuridico come sistema istituzionale di garanzia del diritto.

Il patto costituzionale può essere pensato come giuridicamente obbligatorio solo a condizione di non farlo dipendere dalle molteplici e variabili felicità degli individui, ma da una definizione rigorosamente formale del diritto, che faccia riferimento solo alla libertà e alla pluralità degli esseri umani in quanto agenti morali e che risolva il problema della loro convivenza solo sulla base della ragione. «Diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione della sua armonia con la libertà di ognuno, nella misura in cui essa è possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico è il complesso delle leggi esterne, le quali rendono possibile una tale armonia pervasiva »(289-290).

A Kant non interessa sapere quali tradizioni e aspirazioni fondano storicamente gli stati esistenti. Vuole, piuttosto, costruire una unità di misura secondo ragione della legittimità della società civile in generale. Per questo cerca di lavorare solo sugli elementi formali della sua definizione del diritto. Ma che cosa si deve intendere per libertà? Qui siamo nell'ambito del diritto: è necessario darne una definizione esterna, politica.

Una teoria liberale: i tre princípi della condizione civile

La condizione civile, per Kant, poggia su tre princípi dati a priori, cioè prima e al di sopra di ogni ordinamento positivo: libertà (290-291), uguaglianza (291-294), indipendenza (294-296).

1. La libertà è un attributo dell'essere umano: non viene data dal diritto, ma deve essere da esso presupposta. Si può avere diritto, infatti, esclusivamente dove ci sono creature capaci di diritti e di doveri: solo degli agenti liberi possono essere tali. Kant definisce la libertà non positivamente, bensì negativamente, 187 alla maniera dei liberali, come facoltà di ciascuno di cercare la felicità nel modo che preferisce, nel rispetto della pari facoltà altrui, secondo una possibile legge universale. Da questa definizione segue che l'imperium paternale, nel quale i sudditi sono trattati come minorenni e viene loro imposto il modello di felicità del governante, è il peggior dispotismo 188 che si possa immaginare. All'imperium paternale si contrappone quello patriottico, nel quale lo stato è pensato come una res publica che deve essere soggetta solo alle leggi della volontà collettiva senza essere asservita agli interessi di nessuno.

2. Il principio dell'uguaglianza in quanto sudditi richiede che tutti coloro che sono soggetti alla legge le siano sottoposti in misura uguale. Che, cioè, io possa costringere legalmente qualcuno a qualcosa soltanto se anch'egli, in una situazione paragonabile, avrebbe parimenti titolo a costringere me. Anche questo requisito non è banale: Kant, dopo aver preso posizione contro il paternalismo delle monarchie assolute, si esprime contro i privilegi di ceto propri dell'Ancien régime. 189 Per quanto nella società ci siano numerose disuguaglianze sostanziali, esse non possono diventar fondamento di disuguaglianza davanti alla legge: la qualifica di soggetto di diritto non si costituisce sulla storia e sulla natura delle persone, ma sul loro carattere, intelligibile, di agenti liberi, che è uguale per tutti perché è pensato dalla ragione. La nascita, sulla cui base si assegnano i privilegi e gli oneri di ceto, non è un atto giuridico: essa non deriva da una scelta libera di chi viene al mondo, ma è un fenomeno nei confronti del quale chi nasce è completamente passivo. 190 La circostanza che la nostra posizione davanti alla legge non dipenda dalla nostra situazione storica e naturale fa sì che l'ordinamento giuridico secondo ragione sia anche aperto alla promozione sociale di chiunque, proprio perché esso si fonda sull'astrazione dell'uguaglianza e non su una fotografia della gerarchia esistente.

Per questo, in un ordinamento giuridico secondo ragione, uguaglianza davanti alla legge e soggettività giuridica sono tutt'uno, e non possono decadere, né a causa di una occupazione nemica durante una guerra, né per contratto (293). L'occupatio bellica non può giustificare una decadenza dall'uguaglianza perché per Kant lo stato non istituisce il diritto: è bensì il diritto che legittima lo stato, in quanto suo strumento di garanzia. Per questo il diritto può e deve sopravvivere allo stato; per questo il diritto potrà trascendere lo stato, facendosi cosmopolitico. Tanto meno si può decadere dall'uguaglianza per contratto: nel momento in cui qualcuno si privasse dei propri diritti, si priverebbe della qualifica di soggetto di diritto, e questo renderebbe nullo il contratto stesso. Esso, infatti, per rimanere valido, deve essere in vigore fra parti che restino dotate di personalità giuridica.

Kant esclude dall'uguaglianza solo il cosiddetto «capo dello stato» (291), l'unico che può costringere senza essere costretto, perché è l'autorità giuridica di ultima istanza. Kant chiama questa autorità creatrice e conservatrice dello stato: siamo in una situazione civile solo se c'è un giudice terzo in grado di mettere fine a ogni controversia secondo una legge coercitiva. Uno stato può essere civile solo se si riconosce un'autorità di ultima istanza che ha l'ultima parola: se questa manca, ci ritroviamo nello stato di natura in cui le soluzioni, anche quando alla violenza viene preferita una qualche forma di arbitrato, sono sempre provvisorie perché riposano su - precarissimi - accordi fra parti che sono giudici in causa propria.

C'è differenza fra questo capo dello stato, che può costringere senza essere costretto, e i monarchi assoluti che concentravano la sovranità nelle loro mani? Una nota (294), dal tono apparentemente frivolo, può far capire che Kant si stava orientando verso la teoria della separazione dei poteri: chi merita il titolo di "grazioso signore"? Il termine ha qui un senso non teologico, bensì giuridico: è propriamente "grazioso" colui nei cui confronti non si può avere nessun diritto coercitivo. Kant propone questa gerarchia:

  • sovrano come legge personificata, quindi invisibile e non identificabile con un agente

  • capo dell'amministrazione statale, agente della legge, che attua e concede ogni bene possibile secondo la legge, non soggetto a diritti coercitivi.

La sovranità, in uno stato di diritto, non sta propriamente nelle persone, ma nella legge, e viene riflessa nel capo dello stato - il "grazioso signore" - in quanto agente della legge. Kant adduce come esempio il caso della aristocratica repubblica di Venezia: qui il titolo di "grazioso" non spetta a nessuna persona fisica, ma al Maggior Consiglio 191 nel suo insieme che è sovrano come organo. I nobili membri del consiglio, se presi uno per uno, sono soggetti a diritti coercitivi esattamente come gli altri sudditi, e come lo stesso doge.

Il titolo di "grazioso" è dato solo per cortesia ai principi (Prinzen) che governano i paesi per diritto ereditario: essi, in realtà, sono sudditi come tutti gli altri, in quanto soggetti alla legge. I Prinzen sono appunto i monarchi assoluti settecenteschi. Essi, pertanto, non vengono riconosciuti da Kant come sovrani. Nei loro confronti, «anche al minimo dei loro servi spetta un diritto coercitivo, per il tramite del capo dello stato», il quale, evidentemente, non si identifica col monarca. Dove sarà mai, allora, il capo dello stato, in una monarchia, se non è identico alla persona del principe? L'esempio dell'aristocrazia ci aiuta a rispondere: il sovrano a Venezia è l'organo che detiene il potere legislativo supremo. Per Kant, in una monarchia ereditaria il re non merita il titolo di "grazioso signore", e dunque non può neppure essere titolare del potere legislativo. Il saggio del 1793 lo attribuisce ai rappresentanti del popolo, come stabilito dal terzo principio, quello dell'indipendenza.

3. Il principio dell'indipendenza (294-296) governa l'assegnazione dei diritti politici. La legge pubblica introdotta dal contratto originario deve essere stabilita dal popolo intero, perché la sua legittimità sta proprio nell'essere frutto di una volontà generale e non particolare. Quindi una società civile secondo ragione deve riconoscere la possibilità che i sudditi siano anche cittadini, cioè godano di diritti politici tali da renderli co-legislatori. Sebbene la libertà sia un elemento intelligibile e non sensibile, nel 1793 Kant sceglie di tradurla in autodeterminazione politica tramite un criterio sensibile: il diritto di voto è riconosciuto solo a chi è indipendente, e cioè a chi, oltre a non essere né donna né bambino, vive del suo, nel senso che possiede una sua proprietà o una sua competenza e non è obbligato a vendere la propria forza lavoro bruta a un padrone. Questo comporta che il suffragio sia riservato solo a quelli che non sono né bambini, né donne, né proletari. Questo criterio, che autorizza a rappresentare il Kant del 1793 come un pensatore liberale e non democratico, si ritrova anche nella Metafisica dei costumi del 1797, mentre è assente dalla Pace perpetua.

Le deliberazioni avvengono a maggioranza, tramite rappresentanti se il popolo è troppo numeroso per parteciparvi direttamente. Il principio di maggioranza è contenuto nel contratto originario che istituisce lo stato civile. Se non si riconoscesse questo principio le decisioni collettive, per avere un significato politico, dovrebbero essere unanimi, esattamente come avviene nello stato di natura, dal quale non varrebbe più la pena uscire, perché sarebbe di fatto impossibile produrre una legislazione pubblica coercitiva.

Nel 1793 Kant, con la sua critica al paternalismo monarchico e all'ordine cetuale e con il suo suffragio ristretto è molto vicino ai princípi liberali affermatisi nella prima fase della Rivoluzione francese. Esaurita la questione dei princípi, il corollario è interamente dedicato alla legittimità dell'atto della rivoluzione.

1. Il contratto originario non è un fatto, bensì un'idea della ragione (297). Non è un evento di cui si deve provare la realtà e che produce una norma vincolante solo per chi l'ha sottoscritta, ma l'unità di misura ideale 192 della legittimità di ogni stato esistente, al di sopra di ogni eventuale patto storico (301). Una legge è giusta solo se anche un popolo intero potrebbe volerla per sé, cioè se è idealmente compatibile con la volontà unita di una società di esseri razionali liberi e uguali. Per esempio, il privilegio signorile ereditario - tipico dell'Ancien régime - o l'imposizione di tributi solo ad alcuni proprietari e non ad altri (297 nota) sono ingiusti proprio perché possono essere voluti solo da alcuni, per motivi particolarissimi e non universalizzabili, e non, idealmente, da tutti. Kant non sta proponendo di decidere se una legge è giusta tramite un sondaggio o una votazione entro un popolo che potrebbe essere trattenuto in uno stato di minorità: la pietra di paragone è quanto idealmente potrebbe decidere una società composta di esseri razionali liberi e uguali.

2. In uno stato di diritto il popolo non può resistere alla legge, cioè opporsi tramite un'omissione o un'azione a un provvedimento che giudica lesivo della propria felicità. Se al principio del diritto viene sostituito quello della felicità, si produrranno norme particolari, che dipenderanno dai contenuti empirici variabili con cui l'uno o l'altro riempie quest'idea, e non più leggi universali. Ma questo distruggerà la costituzione legale stessa, che è tale solo se tutela la libertà di ciascuno di perseguire la felicità come meglio crede. Se siamo in uno stato di diritto, una resistenza compiuta in nome dei propri interessi particolari scardinerebbe il principio del primato della legge e dunque la costituzione stessa (298).

3. Se ci troviamo in una costituzione legale, e quindi conforme ai princípi del diritto secondo ragione, per Kant due argomenti formali, di carattere logico-giuridico, militano contro il diritto di resistenza:

  1. il pactum unionis civilis col quale si esce dallo stato di natura si basa sulla delega del potere di ciascuno di essere giudice in causa propria a una autorità terza: se la massima di disobbedire venisse resa universale - fosse, cioè, idealmente scritta nel contratto originario -, il contratto stesso sarebbe contraddittorio e dunque nulla. Il popolo, dopo aver delegato il potere di dirimere le controversie secondo il diritto, aggiungerebbe una clausola per la quale chiunque può resistere ogni volta che non si trova d'accordo con l'autorità istituita dal contratto. In questo modo, avremmo una delega che non è una delega e quindi una contraddizione la quale «annullerebbe ogni costituzione civile e sradicherebbe lo stato [Zustand] nel quale soltanto gli esseri umani possono essere in generale in possesso di diritti» (299);

  2. se il popolo ritenesse che il capo dello stato ha violato il contratto originario e si contrapponesse al capo dello stato, l'unica soluzione giuridica di questa contesa - in grado di evitare che le due parti agiscano da giudici in causa propria, come nello stato di natura - sarebbe delegarne la decisione a una ulteriore autorità terza. Ma se il diritto di resistenza viene ammesso una volta, bisogna ammetterlo sempre: qualora una delle parti non fosse d'accordo col verdetto di questa autorità terza, occorrerebbe una autorità quarta, e così via, all'infinito. Per evitare il regresso all'infinito - che dipende dall'idea contraddittoria che al di sopra del sovrano ci sia sempre un ulteriore sovrano "più sovrano" - ci vuole un giudice di ultima istanza, irresistibile (300).

4. Si potrebbe obiettare che quando un legittimo capo dello stato diventa tiranno, ci si trova in uno stato di emergenza in cui il diritto ordinario può essere sospeso (ius in casu necessitatis). Per Kant questo diritto di far torto in situazioni eccezionali è un controsenso (300). Egli, in nota, riconosce solo la possibilità di un contrasto fra due doveri, uno incondizionato e l'altro condizionato. Per esempio un figlio può trovarsi obbligato a dimenticare la pietà filiale - dovere condizionato - qualora il padre se renda colpevole di un delitto che debba essere denunciato: in questo caso c'è una necessità, ma di carattere morale, che costringe il figlio, dolorosamente, a venir meno a un dovere di ordine inferiore. Un altro esempio, più interessante: se un naufrago, per salvarsi la vita, scaccia il suo compagno di sventura dalla tavola a cui si stava aggrappando, la sua azione rimane un delitto. Nessuna necessità naturale può giustificare l'uccisione di una persona che non ci offende né ci minaccia. Anche in questo caso, il dovere condizionato di conservare la propria vita è subordinato a quello incondizionato di non far morire un innocente. Ci si trova, però, in una situazione in cui il diritto è impotente. La coercizione giuridica, infatti, ha luogo tramite sanzioni: ma quando la propria vita è messa immediatamente a repentaglio, neppure la pena di morte, che è la sanzione più severa, può avere efficacia coercitiva. Dunque: il diritto è strutturalmente inefficace, se il solo motivo che induce a rispettarlo è il timore della sanzione, ogni volta che il male immediato che l'agente soffrirebbe qualora osservasse la legge è maggiore di quello minacciato dalla pena. In questo caso, per comportarsi legalmente occorre avere motivazioni ulteriori rispetto alla paura della punizione. In termini politici: un ordinamento che si regge, hobbesianamente, solo sul timore della sanzione è esposto all'esercizio della resistenza ogni volta che la sanzione stessa non ha effetto deterrente.

5. Le rivoluzioni avvengono quando il sovrano diventa dispotico perché vuole imporre il suo modello di felicità ai suoi sudditi e il popolo si ribella perché vuole riempire la sua esigenza di felicità, universalmente umana, con contenuti suoi propri (302): se il confronto è fra concezioni della felicità, sia l'esito tirannico sia quello rivoluzionario sono inevitabili, perché sovrano e popolo non si ispirano al diritto, bensì a massime particolari non giudicabili secondo un'unità di misura intersoggettiva. In questa prospettiva, la classica dottrina del diritto di resistenza come enunciata da Achenwall (301) è estranea al diritto, perché la sua formula si basa esclusivamente su un bilancio, soggettivo, della felicità: se la continuazione del regime vigente è più pericolosa delle conseguenze di una ribellione, allora è lecito resistere.

6. Tutte le rivoluzioni - e tutti i dispotismi - hanno luogo fuori dal diritto. Non si può pensare a una coercizione giuridica del popolo sul sovrano perché il popolo stesso si costituisce come tale solo nel momento in cui viene istituito l'ordine civile, quando, cioè, si superano le volontà particolari nella fondazione della volontà generale. Non c'è popolo se non c'è volontà generale; non c'è volontà generale senza costituzione (302). Ma una costituzione che prevede il diritto di resistenza è una costituzione nulla, che contraddice se stessa.

In questa prospettiva, Kant va controcorrente anche nel suo giudizio sulla costituzione inglese, esito della Glorious Revolution del 1688, che aveva sostituito sul trono britannico il cattolico Giacomo II Stuart con la coppia protestante formata dalla figlia Maria e da Guglielmo III d'Orange. A parole il re rimane l'autorità di ultima istanza, ma nei fatti il popolo - o, meglio, chi si arroga il titolo di agire in suo nome - ha la facoltà di detronizzarlo. Questa facoltà, presente nella costituzione materiale, viene taciuta dalla costituzione formale - opportunamente non scritta - per non rendere palese la contraddizione di un capo dello stato che non è affatto tale (303).

La libertà della penna

La critica al diritto di resistenza sembra schierare Kant dalla parte di Hobbes, per il quale non esistono limiti a quanto il capo dello stato può fare ai suoi sudditi (303). Anche Kant sostiene che una volta giunti all'appello di ultima istanza, il suddito deve obbedire, se vuole rimanere entro il diritto. Per lui, però, l'espressione diritto non è una parola vuota, che riceve il suo senso - e anche i suoi contenuti - solo dalla violenza della spada. Perché vi sia diritto pubblico la coercizione è necessaria, come mezzo di garanzia ultima, ma non sufficiente. Occorrono almeno altri due requisiti:

  1. il diritto deve rispettare le sue proprie condizioni, cioè la libertà e l'uguaglianza di tutti, secondo la formula già esposta nel saggio sull'Illuminismo: «ciò che un popolo non può decretare su se stesso non può decretarlo neppure il legislatore sul popolo» (304);

  2. in un mondo di esseri razionali ma finiti, è indispensabile la libertà di parola per misurare la giustizia e l'ingiustizia della legislazione positiva: «la libertà della penna [...] è l'unico palladio dei diritti del popolo» (304).

La libertà della penna non è identica alla libertà della stampa: la prima è propriamente la libertà degli scrittori, la seconda, invece, interessa in primo luogo gli editori. Lo scritto sulla ristampa giustifica i diritti degli editori solo se e quando, in luogo di imporre barriere monopolistiche alla circolazione delle idee, aiutano gli autori a raggiungere il pubblico. La loro libertà, che si esercita su mandato e insiste su una forma di uso privato della ragione, è meramente economica. La libertà della penna, di contro, riguarda direttamente l'uso pubblico della ragione: è libertà di esprimersi senza censure di chi pensa da sé. Kant ora attribuisce più esplicitamente a questa libertà la funzione - non solo culturale ma anche politica - di tenere sotto controllo critico un potere formalmente irresistibile: «ciascuno, su quanto concerne il dovere universale degli esseri umani, esige di essere convinto con la ragione che questa coercizione sia legittima, per non cadere in contraddizione con se stesso» (305). Una discussione libera, proprio perché tale, è anche in grado di regolarsi da sé, tramite il confronto razionale: «le penne si limitano reciprocamente da sé, così da non perdere la loro libertà» (304). Kant non sta contrapponendo il potere dei monopoli editoriali al monopolio della forza legittima: sta pensando, piuttosto, a una sfera pubblica a cui chiunque ha pari facoltà di partecipare, senza padroni che esercitino censure politiche o economiche. Una sfera pubblica nella quale sia effettivo quello spirito di libertà che, trascendendo la coercizione, dà sostanza alle ragioni del diritto. 193

Il salto mortale della ragione

Kant, pur dichiarandosi favorevole ai princípi della Rivoluzione francese, dedica molto spazio alla critica del diritto di resistenza, perché per lui la questione filosoficamente più importante è il confronto fra due modalità di legittimazione politica alternative:

  1. il diritto si fonda, particolaristicamente, sul fatto, cioè sulla consuetudine (305-306), o sulla nuda coercizione, o sul successo di un colpo di stato riuscito: in tutti questi casi la legittimità dell'ordine costituito riposa sulla nostra paura, sul nostro interesse o sulla nostra pigrizia, cioè, in una parola, sulla ricerca della felicità;

  2. il diritto si fonda, universalisticamente, sulla ragione, dalla quale trae sia i tre princípi della costituzione civile, sia i suoi argomenti logico-giuridici contro il diritto di resistenza, sia la libertà della penna.

Queste due modalità di legittimazione sono differenti nella specie e si escludono reciprocamente: non si può negare il diritto di resistenza senza riconoscere il diritto secondo ragione con tutti i suoi vincoli, né si può abbracciare la legittimazione particolaristica, fondata sull'utile, la pigrizia o la paura senza ammettere la dottrina del diritto di resistenza, col suo calcolo, soggettivo, della felicità. Paradossalmente, proprio i detrattori dei princípi della Rivoluzione francese abbracciano teorie i cui esiti giustificano l'atto rivoluzionario.

Infatti, se un sovrano andasse proclamando che gli esseri umani, nella loro durezza, non meritano di essere trattati come soggetti di diritto, ma vanno semplicemente costretti con la forza - se cioè andasse proclamando che la forza è la sua unica legittimazione - il popolo potrebbe prenderlo in parola, ribellandosi per vedere chi è, in effetti, il più forte (305). 194 Le rivoluzioni non sono dovute all'astrattezza del diritto secondo ragione, che, quando è vigente e preso sul serio, offre rimedi per risolvere pacificamente le controversie, bensì a chi, in nome del realismo politico, pretende di governare solo con la forza calpestando il diritto. La violenza non viene dai filosofi: viene dai tiranni.

Un caso esemplare: il regime fascista dopo il delitto Matteotti

Per mostrare che questa tesi sulla resistenza non è vuota, applichiamola a un caso storico: Kant avrebbe considerato legittima la resistenza al regime fascista italiano dopo il delitto Matteotti?

Il deputato socialista Giacomo Matteotti aveva denunciato in parlamento le violenze e i brogli che avevano turbato le elezioni del 1924 con un discorso che si concludeva così:

Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. [Interruzioni a destra] Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l'opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. 195

Un simile argomento, che contrapponeva al mero uso della forza la libertà e cercava di farla valere tramite il diritto, nel rispetto delle procedure previste dalla legge vigente, avrebbe potuto essere interamente sottoscritto da Kant. Pochi giorni dopo Matteotti fu rapito e ucciso da parte di alcuni squadristi fascisti. Il suo assassinio provocò, anche perché la stampa era ancora relativamente libera, una crisi del regime. Il 3 gennaio 1925 Mussolini chiuse politicamente il caso con un discorso parlamentare che per gli storici segna l'inizio della dittatura. Vale la pena citarne alcuni brani:

Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!

Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.

Il discorso prosegue sostenendo una tesi che a un giusnaturalista sarebbe suonata come una regressione allo stato di natura, nel quale ciascuno ha titolo a essere giudice in causa propria:

Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza.

Non c'è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. 196

Mussolini, con queste parole, invoca esplicitamente l'autorità della forza, assumendosene piena responsabilità morale. Ma - avrebbe detto Kant - nel momento in cui la legittimazione del regime politico vigente non viene fatta dipendere dal diritto, bensì dalla forza, allora può usarla anche chi gli si oppone. La resistenza a una dittatura come quella fascista è dunque kantianamente lecita: chi ha il potere in mano deve essere consapevole che appellarsi a una forza senza diritto significa aprire le porte dell'inferno.

La menzogna e la forca: l'esperienza della libertà nella Critica della ragion pratica

La Critica della ragion pratica, del 1788, illustra in che modo facciamo esperienza di una autonomia morale che trascende il meccanismo della natura:

Supponete che qualcuno asserisca, della sua inclinazione lussuriosa, che essa gli è affatto invincibile quando gli si presentano l'oggetto amato e l'occasione propizia; e domandate se, qualora fosse rizzata una forca davanti alla casa dove egli trova quest'occasione, per impiccarvelo non appena avesse goduto il piacere, in tal caso egli non vincerebbe questa ingiunzione. Non ci vuole molto a indovinare ciò che egli risponderebbe. Ma domandategli se, qualora il suo principe, con minacce della stessa pena di morte immediata, pretendesse che egli facesse una falsa testimonianza contro un uomo onesto, che il principe volesse rovinare con speciosi pretesti, se allora egli, per quanto grande possa essere il suo amore per la vita, crederebbe possibile vincerlo. Forse egli non oserebbe assicurare che lo vincerebbe o no, ma che ciò gli sia possibile, lo deve ammettere senza difficoltà. Egli giudica dunque di poter fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta ignota. 197

Per illustrare la scoperta della nostra autonomia morale, Kant racconta la storia di un atto di resistenza a un ordine ingiusto emanato da un potere costituito. In una paese in cui ci fosse un ordinamento almeno approssimativamente conforme al diritto secondo ragione e in cui la penna fosse libera la minaccia del principe verrebbe vanificata. Essa, infatti, potrebbe ottenere il suo scopo - non essendo compatibile col diritto pubblico 198 - solo se rimanesse segreta: nessun giudice indipendente accetterebbe come valida una testimonianza falsa perché dichiaratamente estorta. L'intimidazione del testimone avrebbe speranza di successo solo in un paese privo di un sistema legale, ostile alla libertà di parola. Ma qui il potere del principe si reggerebbe soltanto sulla forza, caso, questo, in cui la resistenza è - per il Kant del saggio del 1793 - assolutamente lecita. Quindi: non solo è possibile indicare situazioni storiche a cui è applicabile la tesi sulla resistenza del Detto comune, ma negli scritti kantiani ci sono esempi che hanno senso soltanto alla sua luce.

È molto pericoloso comprimere la libertà dell'uso pubblico della ragione, che per Kant è l'elemento inflessibile di una costituzione materiale conforme al diritto: se c'è libertà dell'informazione, è sufficiente rendere pubblica l'ingiusta pressione del potere esecutivo sul testimone per vanificarne pacificamente il progetto. Se invece questa libertà manca, è difficile evitare lo spargimento di sangue: l'esito dell'esercizio della resistenza sarà o l'impiccagione del testimone onesto o una rivoluzione violenta.

Kant contro Mendelssohn: che cosa possiamo sperare?

Nella terza parte del Detto comune Kant ripropone una questione già presente, in prospettiva etica, nella polemica con Garve. Qual è il senso oggettivo dell'azione morale? La legge morale, in quanto legge universale, implica un progetto di mondo che si riassume nello scopo finale, che è l'unione di virtù e felicità. Se ci limitiamo al diritto, cioè alle azioni nel loro aspetto esteriore, osserviamo che la costituzione statuale, quando è secondo ragione, garantisce una soluzione civile alle controversie. Tale garanzia, però, non oltrepassa i confini dei singoli stati, almeno nell'ordine internazionale vigente dal trattato di Westfalia (1648). Infatti, il principio della sovranità statuale implica che ciascuno stato, essendo superiorem non recognoscens, sia giudice in causa propria. Lo stato di natura che la condizione civile ha eliminato, nei rapporti fra individui, si ripresenta, rafforzato, nelle relazioni internazionali. Se dunque, come recita il titolo del capitolo, vogliamo assumere la prospettiva filantropica (307) di una benevolenza spassionata per l'umanità, il nostro banco di prova sarà necessariamente quello internazionale: «da nessuna parte la natura umana appare meno degna di amore che nelle relazioni di interi popoli l'uno verso l'altro» (312).

Vale la pena impegnarsi per il miglioramento del genere umano nel suo complesso? Il filantropo può rispondere spassionatamente di sì solo se ha motivo di credere che la sua azione avrà un effetto duraturo. Il genere umano può essere pensato come in progresso verso il meglio? (307)

Si tratta di trovare un senso nella storia, a noi nota, per esperienza, come una molteplicità di eventi particolari che si estendono da un passato via via più indefinito a un futuro nebuloso. In altre parole, dobbiamo trovare, pur conoscendo solo particolari, un progetto universale o un fine che valga per l'intero corso storico. Kantianamente, la facoltà che congiunge l'universale col particolare è il Giudizio. In questo caso, essendo l'universale sconosciuto, dovremo ricorrere non al giudizio determinante bensì al giudizio riflettente di tipo teleologico.

L'interlocutore di Kant è Moses Mendelssohn, importante esponente della Haskalà - il rischiaramento ebraico - e dell'illuminismo tedesco. Mendelssohn si adoperava per l'emancipazione degli ebrei - aveva, a questo scopo, tradotto in tedesco il Pentateuco e altri parti della Bibbia ebraica - e per la libertà della coscienza religiosa. Nel suo libro Jerusalem aveva sostenuto che, mentre è possibile il miglioramento dei singoli, la nostra esperienza storica mostra che il genere umano nel complesso è incapace di progredire. Questa tesi - che il Kant del 1798 avrebbe chiamato abderitistica - lo opponeva al suo amico Lessing, per il quale la storia avanza secondo un progetto di educazione divina che anticipa nelle religioni verità destinate a essere comprese dalla ragione soltanto in un secondo tempo (307-308).

Kant, contro Mendelssohn, assume che il genere umano sia in movimento tanto dal punto di vista della cultura, che è lo scopo ultimo della natura, quanto dal punto di vista morale, nella prospettiva dello scopo finale. Se ci affidiamo esclusivamente alla conoscenza empirica della storia, si può prudentemente affermare che l'idea di un progresso verso il meglio è poco realizzabile: ma questa ipotesi non è affatto certa, proprio perché si basa su dati particolari e contingenti come sono quelli dell'esperienza, e non è dunque un motivo sufficiente per far desistere dall'impegno morale. Invece il dovere, che si fonda esclusivamente sulla ragione, produce - come già mostrato nella polemica con Garve - prìncipi d'azione più chiari e sicuri (309).

La tesi di Kant si fonda su una inversione dell'onere della prova (309): la ragion pratica prescrive il dovere non in modo ipotetico, come consiglia la prudenza sulla base di un sapere empirico particolare e contingente, bensì in modo categorico. Nell'imperativo pratico è implicito un progetto di mondo assunto come possibile da chi lo segue proprio perché sceglie di compiere il proprio dovere anziché astenersene. Lo stesso Moses Mendelssohn, nota Kant, si affatica tanto per l'emancipazione del popolo ebraico di cui fa parte perché è praticamente convinto che il suo lavoro può avere un effetto durevole sul futuro dell'umanità, a dispetto della sua filosofia della storia. Se Mendelssohn avesse preso sul serio la sua teoria, non si sarebbe accollato nessun impegno nei confronti degli altri, perché avrebbe avuto la certezza che la storia futura avrebbe vanificato ogni suo successo. Come nel caso di Garve, anche in Mendelssohn c'è un conflitto fra la testa e il cuore. Chi pensa seriamente che un compito sia impossibile, se ne astiene: ma questo modo di ragionare, in ambito pratico, non è ammissibile neppure da un punto di vista strettamente tecnico o pragmatico (310). Nel 1783 i fratelli Montgolfier avevano dimostrato, con il loro pallone aerostatico, che era possibile costruire una macchina volante. Se l' esperienza precedente fosse stata trattata come assoluta, questo progresso non avrebbe mai avuto luogo.

Questo primo argomento è di natura esclusivamente deduttiva: discende, infatti, direttamente dal concetto di dovere come costruito razionalmente e dai limiti intrinseci dell'esperienza. Kant fa uso del giudizio teleologico solo nel suo secondo argomento (310), che indaga sulla disposizione della natura umana a compiere quello che le prescriverebbe il dovere. L'ordine della natura può essere da noi compreso teoreticamente solo come sistema di leggi meccaniche, deterministiche: è possibile vedere questo sistema come finalizzato a un progetto? Noi non sappiamo né se ci sia un architetto, né quale potrebbe essere il suo disegno: questa prospettiva finalistica, aperta dalle nostre esigenze morali, può essere da noi pensata solo tramite il giudizio riflettente, dunque esclusivamente dal nostro punto di vista, senza certezza deterministica (312). C'è qualcosa nel modo in cui siamo fatti come enti naturali che permetta di leggerlo come favorevole al progetto a cui noi partecipiamo in virtù della legge morale? Questa domanda ha senso in quanto, come esseri razionali ma finiti, il nostro operare può realizzare lo scopo della legge morale solo parzialmente e non complessivamente, quando seguiamo la legge morale; quando invece ci lasciamo determinare dai nostri impulsi naturali, perseguiamo solo i nostri interessi l'uno contro l'altro. Per l'intero, occorre dunque l'intervento di quello che Kant chiama, con espressione teologica, provvidenza, altrove detta, più laicamente, natura. 199

Verso una costituzione cosmopolitica

Come è possibile che la garanzia del diritto si estenda dagli stati alla sfera internazionale? Kant propone un'analogia oggi nota col nome di domestic analogy: i singoli, nonostante i loro interessi antagonisti, hanno scelto alla fine di entrare in una costituzione civile statale, per sottrarsi alla violenza arbitraria propria dello stato di natura; analogamente, gli stati, per sfuggire alla violenza e all'impoverimento provocati dalla guerre, riterranno alla fine opportuno entrare in una costituzione civile mondiale o cosmopolitica, la quale trasferisce la sovranità dai singoli stati a un potere terzo fra le parti. Nel 1793, Kant teme ancora 200 che un simile ordinamento porti con sé il rischio di un dispotismo mondiale; per questo, suggerisce la soluzione alternativa di una confederazione «secondo un diritto internazionale concertato in comune». In quest'ultimo caso non vi è cessione di sovranità: il vincolo che lega gli stati fra loro è simile, piuttosto, a quello di un trattato di alleanza (foedus), 201 nel quale le parti sono vincolate esclusivamente dalla propria parola e non da un potere coercitivo a esse superiore. Per quanto concerne il diritto pubblico interno Kant propone che a decidere se entrare o no in guerra non sia il capo dello stato, bensì il popolo che ne subisce le conseguenze (311): 202 il Kant del 1793, pur non avendo ancora definito chiaramente un diritto pubblico cosmopolitico, anticipa già il nuovo orizzonte politico della Pace perpetua. Il regno del diritto può essere assicurato solo se esso è vigente in tutto il mondo, e non solo in alcune parti: l'ordinamento interno, in questa prospettiva, non può mai essere considerato nel suo isolamento. E anche in questo testo, la confederazione è solo un ripiego, mentre la soluzione ottimale rimane quella imposta dalla teoria: lo «stato universale dei popoli», la cui realizzabilità ultima è ribadita dall'ultimo paragrafo del saggio (312). 203

A chi considerasse questa speranza utopica, Kant oppone tre argomenti, il primo di natura storico-politica, il secondo di natura pratico-morale e il terzo fondato sul Giudizio:

  1. i realisti politici ritengono che periodi di pace duratura possano fondarsi solo sull' equilibrio di potenza, 204 che ha luogo quando sullo scacchiere internazionale le forze dei vari stati sono più o meno pari, così da rendere la guerra poco conveniente per tutti; un simile equilibrio, però, è per sua natura precario: è sufficiente un lievissimo mutamento della condizione comparativa degli attori sulla scena perché si scateni di nuovo la guerra (312);

  2. la ragion pratica prescrive come doveroso che il rapporto fra esseri umani e stati sia interamente soggetto al diritto, sia sul piano interno sia su quello internazionale: ma ciò che è doveroso può essere tale solo se viene presupposto come possibile (313);

  3. l'antagonismo delle inclinazioni naturali degli esseri umani alla fine spingerà sanguinosamente anche chi non è illuminato dal dovere sulla strada dell'unione entro uno «stato universale dei popoli» (313). 205

L'azione della natura, che può essere letta provvidenzialisticamente solo tramite il Giudizio, non elimina il dovere, perché in questo modo verrebbe meno la libertà che è condizione di possibilità della valutazione morale. Essa dunque è pensabile solo come sussidiaria, una volta riconosciuti gli indirizzi della ragion pratica. Chi non segue le leggi della ragione per amore, prima o poi lo dovrà fare per forza: fata volentem ducunt, nolentem trahunt.



[178] La Critica del Giudizio tratta anche di un secondo tipo di Giudizio, quello riflettente, il quale, dato il particolare, cerca di costruirvi un universale che non ancora noto. A questo secondo ambito appartengono il giudizio estetico e quello teleologico.

[179] Nella Critica della ragion pura le categorie, in numero di dodici, sono le forme pure dell'intelletto, date a priori, tramite le quali organizziamo il molteplice fornitoci dalla sensibilità.

[180] Uso qui, per la sua chiarezza, la spiegazione di G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, cit., p. 60.

[181] Per Kant chi manca di giudizio merita il titolo di stupido (Critica della ragion pura, edizione 1787, 132).

[182] Per Kant (Critica della ragion pura, edizione 1787, 522):

tutto l'interesse della mia ragione (tanto speculativo quanto pratico) si unifica nelle tre domande seguenti:

  1. Che cosa posso conoscere?

  2. Che cosa devo fare?

  3. Che cosa posso sperare?

[183] H. Williams, «Christian Garve and Immanuel Kant: Some Incidents in the German Enlightenment», Enlightenment and Dissent 19 (2000), pp. 171-92, https://hdl.handle.net/2160/1906.

[184] Si veda, per una spiegazione più ampia, G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant cit., pp. 47 ss.

[185] L'umanità in questo senso non si determina con l'appartenenza a una specie biologica, bensì con l'essere soggetto della legge morale, capace di autodeterminarsi liberamente, com'è propria di tutti gli esseri razionali in generale (Critica della ragion pratica, 087).

[186] Sul senso di questo termine in Kant si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant cit., pp. 5 ss.

[187] La distinzione fra libertà positiva e negativa, resa famosa da Isaiah Berlin, fu in realtà proposta da Norberto Bobbio nel anni '50 del secolo scorso (Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1974, pp. 160-194 e 269-282), in polemica col marxista Galvano Della Volpe e col segretario del PCI Togliatti. La libertà negativa è la libertà come facoltà (avere il permesso di fare); essa è un concetto complementare e correlativo alla libertà come potere (poter effettivamente autodeterminarsi a fare) o libertà positiva. Secondo Bobbio nessuna delle due accezioni di libertà può essere sacrificata all'altra. Non avrebbe senso dare un permesso a qualcosa che non sa autodeterminarsi, così come non si potrebbe parlare di autodeterminazione per qualcuno che viene costretto a essere solo in un determinato modo ed è privato della facoltà di scelta.

[188] Federico II, nel suo Antimachiavelli (Anti-Machiavel, 1780 p. 483 in Gesammelte Werke Friedrichs des Grossen in Prosa - Ausgabe in einem Bande, hrsg. v. I.M. Jost, Lewent 1837, Digitale Ausgabe der Universitätsbibliothek Trier, https://www.friedrich.uni-trier.de/jost/toc/page/), aveva appunto scritto che il compito del monarca era quello di rendere felici i suoi sudditi. La posizione di Kant, diametralmente opposta, getta luce anche sul senso del suo elogio selettivo al re prussiano contenuto nel saggio sull'Illuminismo del 1784.

[189] Non casualmente, questa tesi provocò a Kant una dura risposta da parte dei liberal-conservatori, come il suo vecchio allievo Friedrich von Gentz, il quale, sulle tracce di Burke, sosteneva che lo stato si può reggere solo su consuetudini e tradizioni condivise (F. v. Gentz, «Nachtrag zu dem Räsonnement des Herrn Prof. Kant über das Verhältnis von Theorie und Praxis», Berlinische Monatschrift,, 1793). Si veda N. De Federicis, La filosofia politica di Kant. I recensori degli scritti politici, in Id. , «Immanuel Kant. Una bibliografia», Bollettino telematico di filosofia politica, 2003, https://bfp.sp.unipi.it/kantbib/index.html.

[190] Per questo motivo Kant non parla mai di "diritti umani". Essere nati entro la specie Homo sapiens non è un atto giuridico, proprio come non lo è essere nati nobili o plebei. Su questo tema si veda il paragrafo dell'annotazione all'Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico dedicato al problema del diritto, a proposito della nota di Kant sugli abitanti di altri pianeti.

[191] Nella nota in questione Kant allude a un organo della repubblica di Venezia che chiama der große Rath; sia Solari, sia Gonnelli traducono questa espressione letteralmente come "Gran Consiglio" (p. 259 della traduzione Solari e p. 141 della traduzione Gonnelli). Ora, a Venezia non esisteva un "Gran Consiglio" bensì un "Maggior Consiglio", che i tedeschi però chiamano Großer Rat (si veda per esempio https://de.wikipedia.org/wiki/Verfassung_der_Republik_Venedig).

[192] L'assonanza fra Kant a Platone sull'uso delle idee come modello per la prassi emerge chiaramente nella seconda parte del Conflitto delle facoltà, 091.

[193] Lo spazio dell'uso pubblico della ragione, come già nel 1784, rimane orizzontale e privo di gerarchie e di élites di illuminati. Le società segrete sono la conseguenza di un sistema dominato da una coercizione senza libertà (305). Nell'articolo segreto della Pace perpetua (369) Kant, approfondendo il tema del senso politico della cultura, legherà l'autorevolezza della voce dei filosofi alla loro lontananza da «cospirazioni e conciliaboli», che li renderebbero portatori di punti di vista e interessi particolari.

[194] In Antropologia pragmatica 330-331 si trova il seguente schema:

Legge + forza + libertà = repubblica

Legge + forza = dispotismo

Legge + libertà = anarchia

Forza = barbarie

La repubblica è la costituzione secondo il diritto teorizzata da Kant; la barbarie è la situazione in cui vige esclusivamente la legge del più forte. In questo secondo caso è ozioso chiederci se si ha o no titolo a resistere: quando il diritto non c'è, si può - si deve - resistere ai prepotenti.

[195] G. Matteotti, Discorso alla Camera dei Deputati di denuncia di brogli elettorali, 30 maggio 1924, corsivi miei https://it.wikisource.org/wiki/Italia_-_30_maggio_1924,_Discorso_alla_Camera_dei_Deputati_di_denuncia_di_brogli_elettorali.

[196] B. Mussolini,Discorso alla Camera dei Deputati sul delitto Matteotti, 3 gennaio 1925, corsivi miei https://it.wikisource.org/wiki/Italia_-_3_gennaio_1925,_Discorso_sul_delitto_Matteotti.

[197] I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, 030 (trad. di F. Capra, Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 38.

[198] Se adottiamo il criterio della prima formula trascendentale del diritto pubblico esposta nella Pace perpetua.

[199] Pace perpetua, 361.

[200] Questo timore svanisce nella Pace perpetua, che teorizza esplicitamente il carattere repubblicano della federazione e legge il dispotismo imperiale o monarchia universale come destinato, per sua natura, alla disgregazione. G. Cavallar («Kant's society of nations: Free federation or world republic?», Journal of the History of Philosophy, 12/3, 1994, https://muse.jhu.edu/journals/journal_of_the_history_of_philosophy/v032/32.3cavallar.pdf) sostiene che il timore del dispotismo mondiale induce Kant a mantenere una posizione confederalista perché l'adesione a una federazione dovrebbe necessariamente essere imposta con la forza e dunque con la guerra.

[201] Il modo faticoso in cui Kant, nel corso del suo pensiero, parla di quello che noi oggi chiamiamo federalismo è dovuto che questa pratica, nata in Olanda e Svizzera durante il declino del Sacro Romano Impero, si dovette sviluppare in un periodo in cui il paradigma della sovranità unitaria e indivisibile dominava incontrastato. Gli stati federali, pur essendo diversi sia dagli stati unitari sia dalle semplici alleanze, si dovettero definire, entro questo paradigma, facendo un uso estensivo del concetto di foedus. Si veda P. Riley, «Three 17th Century German Theorists of Federalism: Althusius, Hugo and Leibniz», Publius 6 (3), 1976, pp. 7-41.

[202] Lo stesso argomento è ripetuto nella Pace perpetua (351).

[203] G. Marini, «Sulle traduzioni italiane di alcuni termini kantiani aventi rilevanza giuridico-politica», in Kant e la morale. A duecento anni da "La metafisica dei costumi", Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1999, pp. 114-16; https://archiviomarini.sp.unipi.it/114/.

[204] L'equilibrio di potenza era stato teorizzato dallo stesso Federico II nel https://www.classicitaliani.it/machiav/critica/Federico_antimachiavelli_1807_trad_Pozzi.htm capitolo conclusivo del suo Antimachiavelli (cit., p. 520): anche in questo caso, Kant è molto lontano dalle posizioni del monarca che pure, selettivamente, era oggetto di elogio nel saggio sull'Illuminismo.

[205] L'elemento dell'antagonismo è il retaggio più antico della filosofia della storia di Kant, essendo già presente nella Quinta tesi dell'Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico.


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