Bollettino telematico di filosofia politica

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Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica» 139

Immanuel Kant

Traduzione dall'originale tedesco di Maria Chiara Pievatolo.

Questa traduzione è soggetta a una licenza Creative Commons

1793

Sommario

I. La relazione della teoria con la pratica nella morale in generale (in risposta ad alcune obiezioni del professor Garve)
II. La relazione della teoria con la pratica nel diritto dello stato (contro Hobbes)
III. La relazione della teoria con la pratica nel diritto internazionale. Considerata con un intento universalmente filantropico, cioè cosmopolitico (contro Moses Mendelssohn)

[273]

[275] Si chiama teoria un corpus [Inbegriff] di regole anche pratiche, quando queste regole, come princípi, sono pensate con una certa universalità e quindi si astrae da una serie di condizioni che pure hanno necessariamente influsso sulla loro applicazione. Viceversa si chiama pratica non ogni affaccendarsi, bensì solo quella attuazione [Bewirkung] di un fine che è pensata come osservanza [Befolgung] di certi principi dell'agire, rappresentati in generale.

Che, fra la teoria e la pratica, si richieda ancora un termine intermedio di connessione e di transizione dall'una all'altra, per quanto la teoria possa essere completa, è evidente: infatti al concetto dell'intelletto, che contiene la regola, si deve aggiungere un atto della facoltà di giudicare, tramite cui il praticante [Praktiker] distingue se qualcosa sia o no il caso della regola; e poiché alla facoltà di giudicare non si possono dare sempre di nuovo regole secondo cui dirigersi nella sussunzione (perché si andrebbe all'infinito), così ci possono essere teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare pratici, perché fa loro difetto la facoltà di giudicare; per esempio medici o giureconsulti che hanno fatto bene la loro scuola, ma che se hanno da dare un parere non sanno come comportarsi. Ma anche qualora si incontri questa dote di natura, può ancora darsi una mancanza nelle premesse; cioè la teoria può essere incompleta e il suo completamento può forse aver luogo solo tramite esperimenti ed esperienze ancora da fare, dai quali il medico, l'agronomo o il cameralista 140 che viene dalla sua scuola possa e debba astrarre nuove regole e completare la sua teoria. Non dipendeva dunque dalla teoria, quando valeva ancora poco per la pratica, ma dal fatto che non ce n'era abbastanza; teoria, questa, che egli avrebbe dovuto imparare dall'esperienza e che è vera anche se non è capace di darsela da sé e di rappresentarla sistematicamente, come insegnante, in proposizioni generali e dunque non può pretendere il nome di medico teorico, agronomo teorico e così via.[276] Nessuno quindi può farsi passare per esperto in una scienza sul piano pratico e tuttavia disprezzare la teoria, senza farsi riconoscere semplicemente come un ignorante nella sua disciplina, in quanto crede che brancolando in esperimenti ed esperienze, senza raccogliere certi princípi (che formano propriamente ciò che si dice teoria) e senza aver riflettuto sulla sua attività come un intero (che si chiama sistema, se si è proceduto metodicamente) possa andare più lontano di dove la teoria sia in grado di portarlo.

Tuttavia si può ancora tollerare che chi non sa, nella sua presunta pratica, faccia passare la teoria per non necessaria e superflua, piuttosto che un erudito riconosca quest'ultima e il suo valore per la scuola (forse solo per esercitare il cervello), ma affermi contemporaneamente che nella pratica è tutta un'altra musica; che quando ci si trasferisce dalla scuola nel mondo, ci si rende conto di esser andati dietro a ideali vuoti e sogni filosofici; in una parola, che ciò che nella teoria si lascia ben ascoltare, nella pratica non è di nessuna validità. (Questo si esprime spesso anche così: questa o quella proposizione vale certamente in thesi, ma non in hypothesi) 141 Ora, sarebbero solo oggetto di ridicolo il meccanico empirico o l'artigliere che, a proposito della meccanica generale o della balistica matematica volessero riconoscere che certo la teoria è sottilmente concepita, ma nella pratica non è affatto valida, perché nell'applicazione l'esperienza dà tutt'altri risultati (infatti se alla prima si aggiungesse la teoria dell'attrito e alla seconda quella della resistenza dell'aria e dunque in generale ancor più teoria, si accorderebbero benissimo con l'esperienza). Ma, in una teoria che riguardi gli oggetti dell'intuizione, la faccenda è del tutto diversa da una in cui essi siano rappresentati solo tramite concetti (gli oggetti della matematica e quelli della filosofia): 142 questi ultimi possono forse essere interamente e irreprensibilmente pensati (dal lato della ragione), ma niente affatto dati, ed essere meramente idee vuote, delle quali nella pratica o non ci sarebbe uso, o esso sarebbe addirittura svantaggioso. Perciò quel detto comune potrebbe anche essere giusto, in casi del genere.

Soltanto in una teoria che sia fondata sul concetto del dovere si elimina interamente la preoccupazione per la vuota idealità di questo concetto. Infatti non sarebbe dovere mirare a un certo effetto della nostra volontà,[277] se questo non fosse possibile anche nell'esperienza (lo si pensi o come compiuto ora, o come in continua approssimazione al compimento); e nel presente saggio si parla solo di questa specie di teoria. Da essa infatti non di rado si pretende, per lo scandalo della filosofia, che quanto in essa può essere esatto, sia tuttavia invalido per la pratica; e in un tono presuntuoso e sprezzante, pieno dell'arroganza di voler con l'esperienza riformare la ragione proprio in ciò in cui ha il suo onore più alto; e con la pretenziosità di riuscire a vedere più lontano e sicuro con occhi di talpa fissi sull'esperienza, che con gli occhi concessi a un essere fatto per stare dritto e contemplare il cielo.

Questa massima, divenuta molto comune nei nostri tempi pieni di detti e vuoti di fatti, causa ora, quando riguarda qualcosa di morale (doveri di virtù o doveri di diritto), i danni più grandi. Infatti qui si ha a che fare con il canone 143 della ragione (nell'ambito pratico), in cui il valore della pratica riposa interamente sulla sua adeguatezza alla teoria che la sostiene, e tutto è perduto se le condizioni empiriche e dunque accidentali dell'esecuzione della legge sono rese condizioni della legge stessa; così una pratica, che si calcola sulla base di un esito verosimile secondo l'esperienza avuta fino a ora, ottiene il diritto di dominare la teoria che consiste in se stessa.

Suddivido questo saggio secondo i tre diversi punti di vista, dai quali il gentiluomo che discetta così sfacciatamente di teorie e sistemi ha cura di giudicare il suo oggetto, e dunque in una qualità triplice: 1) come privato, ma anche come uomo impegnato nella vita di relazione [Geschäftsmann] 2) come statista [Staatsmann] 3) come uomo del mondo (o cittadino del mondo in generale). Ora, queste tre persone sono unite nell'attaccare lo studioso [Schulmann], che per tutti loro e per il loro meglio elabora teorie, per ricacciarlo – poiché si illudono di saperne di più - nella sua scuola (illa se iactet in aula!), 144 come un pedante che, corrotto per la pratica, sbarra soltanto la via alla loro sperimentata sapienza.

Presenteremo quindi il rapporto della teoria con la pratica in tre parti: in primo luogo nella morale in generale (a proposito del bene di ogni essere umano), in secondo luogo nella politica (in riferimento al bene degli stati), in terzo luogo nella considerazione cosmopolitica (a proposito del bene del genere umano nella sua interezza e cioè [278] in quanto concepito in progresso verso tale bene nella serie delle generazioni di tutti i tempi futuri). Ma i titoli delle parti saranno espressi, per motivi risultanti dalla trattazione stessa, con la relazione fra teoria e pratica nella morale, nel diritto statuale [Staatsrecht] e nel diritto internazionale [Völkerrecht].

I. La relazione della teoria con la pratica nella morale in generale (in risposta ad alcune obiezioni del professor Garve) 145

Prima di venire al punto autentico della contesa su che cosa nell'uso di un unico e medesimo concetto possa essere valido meramente per la teoria o per la pratica, devo mettere a confronto la mia teoria, come l'ho presentata altrove, con l'esposizione che ne dà il signor Garve, per vedere dapprima se ci capiamo a vicenda.

A. Avevo definito preliminarmente la morale, a mo' di introduzione, in quanto scienza che non ci insegna come dobbiamo diventare felici, bensì come dobbiamo diventar degni di felicità. 146 A questo proposito non avevo mancato di notare che, con ciò, non si richiede all'essere umano che debba rinunciare al suo fine naturale, la felicità [Glückseligkeit], 147 quando si tratta di seguire il dovere: infatti egli non è in grado di farlo, come nessun altro essere razionale finito in generale; deve bensì, quando sopravviene il comando del dovere, far interamente astrazione da questo riguardo; non deve assolutamente renderlo la condizione dell'ubbidienza alla legge prescrittagli dalla ragione [279]; anzi, per quanto gli è possibile, deve cercare di prendere coscienza che nessun movente [Triebfeder] derivato dalla felicità interferisca inavvertitamente nella determinazione del dovere. Ciò si attua con il rappresentarsi il dovere collegato piuttosto con i sacrifici che costa la sua osservanza (la virtù), che con i vantaggi che ci apporta: allo scopo di renderci presente il comando del dovere in tutta la sua autorità, che richiede obbedienza totale e incondizionata, autosufficiente e non bisognosa di nessun altro influsso.

a. Ebbene, il signor Garve esprime questa mia tesi così: «avrei affermato che l'osservanza della legge morale è l'unico scopo finale per gli esseri umani, interamente senza riguardo per la felicità, e che essa deve essere considerata l'unico scopo del creatore.» (Secondo la mia teoria l'unico scopo del creatore non è né la moralità dell'essere umano di per sé, né la felicità di per sé da sola, bensì il sommo [più alto] bene possibile nel mondo, che consiste nell'unificazione e nell'accordo di entrambe.)

B. Avevo notato, inoltre, che questo concetto del dovere non ha bisogno di porre a fondamento uno scopo particolare, anzi è causa di un altro scopo per la volontà dell'essere umano, e cioè adoperarsi, per tutto quanto è in suo potere, per il sommo [più alto] bene possibile nel mondo (la felicità universale nel mondo intero, congiunta anche alla più pura moralità, e conforme a quella); questa cosa, che è certo in nostro potere in uno dei due lati, ma non in entrambi presi insieme, estorce alla ragione, nell'intento pratico, la fede in un signore morale del mondo e in una vita futura. E non come se solo con il presupposto di entrambi il concetto universale del dovere ottenesse «fermezza e stabilità», cioè un fondamento sicuro e la forza richiesta a un movente, bensì perché soltanto in quell'ideale dalla ragion pura il concetto del dovere riceve anche un oggetto [Object]. 148 Infatti di per sé il dovere non è nient'altro che [280] la limitazione della volontà alla condizione di una legislazione universale, possibile tramite l'assunzione di una massima, il cui oggetto o il cui scopo può essere qualsivoglia (dunque anche la felicità), ma da tale oggetto e anche da ogni scopo che si possa avere si fa, in questo caso, completamente astrazione. Quindi, nella questione del principio della morale, la dottrina del sommo bene, come scopo ultimo [letzer Zweck] di una volontà determinata attraverso di essa e adeguata alle sue leggi, può essere (in quanto episodica) superata e messa da parte; come si mostra anche in seguito, quando si tratta dell'autentico punto del contendere, essa non viene affatto presa in considerazione, ma si guarda solo alla morale universale.

b. Il signor Garve espone queste tesi così: «chi è virtuoso non può [kann] mai perdere di vista quella prospettiva (della propria felicità) e neppure gli è lecito [dürfe] – perché altrimenti perderebbe interamente il transito al mondo invisibile, alla convinzione dell'esistenza di Dio e dell'immortalità; essa dunque secondo questa teoria [281] è assolutamente necessaria per dare al sistema morale fermezza e stabilità»; e conclude con un riassunto breve ed efficace del complesso della tesi a me ascritta: «Il virtuoso tenta incessantemente di seguire quei principi, per essere degno di felicità, ma, nella misura in cui [in so fern] è veramente virtuoso, non per essere felice.» (Il termine “nella misura in cui” produce qui una duplicità che deve essere preliminarmente corretta. Esso può significare tanto: nell'atto con cui, come virtuoso, si assoggetta al suo dovere: e questa proposizione si accorda perfettamente con la mia teoria. Oppure: se egli è in generale soltanto virtuoso, anche nei casi in cui non si tratti di dovere e non ci sia contrasto con questo, il virtuoso non deve prendere in considerazione la felicità; e ciò contraddice completamente le mie affermazioni.)

Quindi queste obiezioni non sono nient'altro che fraintendimenti (non voglio infatti considerarle interpretazioni false) la cui possibilità dovrebbe sconcertare, se un tale fenomeno non fosse adeguatamente spiegato dalla tendenza umana a seguire il proprio consueto itinerario di pensiero anche nel giudizio del pensiero altrui e così trasferire questo in quello.

Ora, a questa trattazione polemica del principio morale di cui sopra segue una affermazione dogmatica del contrario. 149 Il signor Garve fa le seguenti deduzioni analitiche: «Nell'ordine dei concetti la percezione e la distinzione degli stati [Zustände] tramite cui viene data preferenza all'uno piuttosto che all'altro deve precedere necessariamente la scelta di uno di questi e quindi la predeterminazione di un certo scopo. Ma una situazione [Zustand] buona è una condizione [Zustand] che un essere dotato della coscienza di se stesso e della propria situazione [Zustand] preferisce ad altri modi di essere quando questa condizione è presente e da lui percepita; e una serie di simili stati buoni è il concetto generalissimo che la parola felicità esprime». Inoltre: «Una legge presuppone motivi, ma i motivi presuppongono una distinzione, percepita preliminarmente, di una situazione [Zustand] peggiore da una migliore. Questa distinzione percepita è l'elemento del concetto di felicità etc.» Inoltre: «Dalla felicità nel senso più generale della parola scaturiscono i motivi per ogni aspirazione [bestreben]; quindi anche per l'obbedienza della legge morale. Io devo preliminarmente sapere in generale che qualcosa è buono, prima di poter chiedere se l'adempimento dei doveri morali ricada nella rubrica del bene; l'essere umano deve [282] avere un movente [Triebfeder] che lo ponga in movimento, prima che gli si possa prefiggere una meta 150 a cui debba essere diretto questo movimento.»

Questo argomento non è nulla più di un gioco con la duplicità della parola “bene”. Infatti questo o si oppone al male in sé, in quanto buono in se stesso e incondizionatamente, oppure, in quanto buono solo condizionatamente, viene confrontato col bene peggiore o migliore, perché lo stato [Zustand] oggetto della scelta di quest'ultimo può essere solo una situazione comparativamente migliore, eppure di per se stessa cattiva. - La massima di una osservanza incondizionata, che non prende in considerazione nessun fine posto come fondamento, di una legge che si imponga categoricamente al libero arbitrio (cioè al dovere) è differente in maniera essenziale, cioè secondo la specie, dalla massima di andar dietro allo scopo attribuitoci dalla natura stessa come motivo per un certo modo di agire (che in generale si chiama felicità). Infatti la prima è buona di per sé, la seconda no: in caso di collisione con il dovere può essere molto cattiva. Invece quando viene posto a fondamento un certo scopo, e perciò nessuna legge domina incondizionatamente (ma solo alla condizione di questo scopo), due azioni opposte possono essere entrambe condizionatamente buone, o solo una migliore dell'altra (la quale ultima si direbbe quindi comparativamente cattiva): esse non sono reciprocamente diverse secondo la specie, ma solo secondo il grado. E così è con tutte le azioni il cui motivo [Motiv] non è la legge incondizionata della ragione (dovere), bensì un fine da noi arbitrariamente posto: infatti questo appartiene alla somma di tutti gli scopi il cui conseguimento viene detto felicità; e un'azione può contribuire di più alla mia felicità e un'altra meno, e quindi essere migliore o peggiore dell'altra. Ma la preferenza di una situazione [Zustand] della determinazione del volere all'altro è un mero atto di libertà (res merae facultatis, come dicono i giuristi), nel quale non viene affatto considerato se questa (determinazione del volere) sia in sé buona o cattiva, e quindi è indifferente rispetto a entrambi.

[283]Una situazione [Zustand] di connessione con un certo fine dato, che io preferisco a ogni altro del medesimo tipo, è una condizione [Zustand] comparativamente migliore, nel campo cioè della felicità (che non viene mai riconosciuto dalla ragione come buono se non in modo meramente condizionato, nella misura in cui se ne sia degni). Ma quello stato nel quale, in caso di collisione di un certo mio scopo con la legge morale del dovere, io preferisco consapevolmente quest'ultima, non è semplicemente uno stato migliore, bensì il solo in sé buono: un bene di un campo completamente diverso, in cui non si riguardano affatto gli scopi che mi si possono offrire (e quindi alla loro somma, la felicità) e in cui la semplice forma della universale legalità [Gesetzmäßigkeit] della sua massima, e non la materia dell'arbitrio (un oggetto posto a suo fondamento), costituisce il suo fondamento di determinazione. - Dunque non si può affatto dire che ogni stato che io preferisco a un altro modo di essere sia da me stimato come felicità. Infatti io devo prima esser sicuro di non agire contro il mio dovere; e solo dopo mi è permesso di ricercare la felicità, per quanto posso armonizzare [lo stato] di questa con quel mio stato moralmente (e non fisicamente) buono. 151

È vero che la volontà deve avere dei motivi: ma questi non sono certi oggetti presupposti, riferiti al sentimento fisico, in quanto scopi, bensì nient'altro che la stessa legge incondizionata, per la quale la suscettibilità della volontà di trovarsi sotto di essa come necessitazione [Nöthigung] incondizionata, si chiama sentimento morale. Esso dunque non è causa, bensì effetto della determinazione del volere; e non ne avremmo in noi la minima percezione, se quella necessitazione [284] non precedesse in noi. Quindi è da annoverare fra i passatempi cavillosi la vecchia canzone per la quale questo sentimento, dunque un godimento [Lust] che noi ci diamo come scopo, è la causa prima della determinazione della volontà, e perciò la felicità (cui questo appartiene come elemento) costituisce il fondamento di ogni necessità di agire oggettiva, e quindi di ogni obbligazione [Verpflichtung]. Infatti, se non si riesce a smettere di questionare nell'attribuzione di una causa a un certo effetto, alla fine si fa dell'effetto la causa di se stesso.

Ora vengo al punto di cui ci stiamo propriamente occupando: cioè sostenere [belegen] ed esaminare con esempi il presunto conflitto d'interesse fra la teoria e la pratica nella filosofia. Il signor Garve ne dà la migliore illustrazione nel suo già menzionato saggio. Dapprima egli dice (parlando della differenza che io trovo fra una dottrina su come diventare felici e una su come dovremmo diventare degni della felicità): «Io da parte mia riconosco che capisco benissimo questa partizione ideale nella mia testa, ma che nel mio cuore non trovo questa suddivisione fra desideri e aspirazioni [Bestrebungen]; mi è anzi incomprensibile come un essere umano possa divenir consapevole di aver perfettamente isolato la sua esigenza di felicità e di aver dunque attuato il dovere in modo interamente non egoistico.»

Rispondo prima di tutto all'ultima questione. Io concedo volentieri che nessun essere umano può divenire consapevole con certezza di aver attuato il suo dovere in modo interamente non egoistico: infatti questo è parte dell'esperienza interna, e a questa coscienza dello stato della propria anima dovrebbe appartenere una rappresentazione complessivamente chiara di tutte le rappresentazioni collaterali e le considerazioni che si accompagnano al concetto di dovere tramite l'immaginazione, l'abitudine e l'inclinazione – una rappresentazione che non può essere in nessun caso postulata; in più in generale il non essere di qualcosa (quindi anche di un vantaggio pensato in segreto) non può essere oggetto di esperienza. Ma che l'essere umano sia tenuto a fare il suo dovere in modo del tutto non egoistico e debba completamente isolare la sua esigenza di felicità dal concetto del dovere, per averlo interamente puro, di ciò egli è consapevole con la massima chiarezza; oppure, se credesse di non esserlo, si può pretendere da lui che lo sia per quanto è nella sua facoltà: perché proprio in questa purezza è da rinvenirsi il vero valore della moralità, ed egli deve dunque anche poterlo. Forse nessun essere umano ha mai potuto fare il proprio dovere, riconosciuto e da lui anche riverito, in modo interamente non egoistico (senza la mescolanza [285] di altri moventi); forse nessuno, anche con la più grande aspirazione, arriverà così lontano. Ma in quanto egli può avvertire in sé, con il più accurato autoesame, non solo l'assenza di simili motivi concorrenti, ma anzi l'abnegazione di sé in considerazione dei molti che si oppongono all'idea del dovere, e quindi il divenir consapevole della massima di tendere a quella purezza, egli è in grado di farlo: e questo basta per la sua osservanza del dovere. Di contro, erigersi a massima il favore per l'influsso di tali motivi, col pretesto che la natura umana non permette una simile purezza (cosa che pure non si può affermare con certezza) è la morte di ogni moralità.

Per quanto concerne la dichiarazione del signor Garve di poco sopra, di non trovare quella suddivisione (o propriamente separazione) nel suo cuore, non esito a contraddirlo proprio nella sua autoaccusa e a venire in difesa del suo cuore contro la sua testa. Egli, uomo onesto, l'ha sempre trovata effettivamente nel suo cuore (nelle determinazioni del suo volere); ma essa, nella sua testa, si rifiutava soltanto di accordarsi con i principi consueti delle spiegazioni psicologiche (che nel complesso pongono a fondamento il meccanismo della necessità naturale) per l'uso della speculazione e per il concepimento di ciò che è inconcepibile (inspiegabile), cioè la possibilità di imperativi categorici (come quelli del dovere). 152

Ma quando il signor Garve dice finalmente: «Tali fini distinzioni di idee si obnubilano già nella riflessione su oggetti particolari: ma si perdono interamente quando si tratta dell'agire,[286] se devono essere applicate a desideri e intenzioni. Quanto più è facile, veloce e spoglio di rappresentazioni chiare il passo con cui superiamo la considerazione dei motivi dell'agire effettivo, tanto meno è possibile riconoscere con precisione e sicurezza l'importanza determinata che ogni motivo ha esercitato nel guidare tale passo così e non altrimenti», io devo contraddirlo con forza e zelo [laut und eifrig].

Il concetto del dovere nella sua totale purezza non solo è senza confronto più semplice, più chiaro, più comprensibile e naturale a ognuno, per l'uso pratico, di ogni motivo preso dalla felicità o commisto con essa e con la sua considerazione (cosa che richiede in ogni tempo una gran quantità di artificio e di deliberazione); bensì, perfino nel giudizio dalla ragione umana più comune, il concetto del dovere è ampiamente più forte, più penetrante e più promettente di tutti i motivi di movimento [Bewegungsgründe] derivanti da quest'ultimo principio egoistico, se viene portato alla volontà degli esseri umani soltanto in sé, e certamente isolato, anzi contrapposto a essi. - Sia per esempio il caso che qualcuno abbia in mano un bene altrui (depositum), che gli è stato affidato, il cui proprietario sia morto, e i cui eredi non ne sappiano niente, né possano venirlo a sapere. Si sottoponga questo caso anche a un bambino di otto o nove anni, e si aggiunga che il possessore di questo deposito, incorso (senza colpa), proprio in questo tempo, in una totale rovina delle sue fortune, si veda attorno una triste famiglia con moglie e figli, oppressa dall'indigenza, dalla cui necessità potrebbe sottrarsi in un attimo, se si impadronisse di quel pegno, e che è filantropo e caritatevole, mentre quegli eredi sono ricchi, senza cuore e anche massimamente opulenti e dissipatori, tanto che sarebbe loro indifferente se questa aggiunta la loro patrimonio fosse gettata in mare. E ora si chieda se in queste circostanze si può considerare permesso impiegare questo deposito per il proprio vantaggio. Senza dubbio l'interrogato risponderà di no e a dispetto di ogni motivazione potrà dire soltanto che è ingiusto, cioè contraddice al dovere. Niente è più chiaro di questo, ma certamente non nel senso che egli favorisca la sua felicità con la consegna. Infatti se attendesse la determinazione della sua decisione dall'intenzione nei confronti della felicità, potrebbe a esempio pensare: «Se dai, non invitato, ai veri proprietari il bene altrui che si trova presso di te [287], presumibilmente ti ricompenseranno per la tua onestà; o, se non accade, ne ricaverai una estesa buona reputazione che può diventare per te molto profittevole. Ma tutto questo è molto incerto. Tuttavia, si fa avanti anche qualche dubbio: se volessi trafugare quanto ti è stato affidato, per trarti fuori una buona volta dalle tue condizioni oppresse, se ne facessi un uso rapido, attireresti su di te dei sospetti su come e per quale via sei pervenuto così presto a un miglioramento delle tue fortune; ma se volessi metterlo all'opera lentamente, l'indigenza nel frattempo aumenterebbe tanto che non le potrebbe più dar sollievo.» - Quindi la volontà, secondo la massima della felicità, ondeggia fra i suoi moventi, su che cosa debba decidere; perché mira al successo, e questo è molto incerto: ci vuole una buona testa per svolgersi fuori dalla calca di motivi pro e contro e non imbrogliarsi nel calcolo del risultato. Invece, se egli si chiede che cosa qui è dovere, non è affatto imbarazzato sulla risposta da dare a se stesso, bensì immediatamente certo su che cosa ha da fare. Anzi, se il concetto del dovere in lui vale qualcosa, prova avversione anche solo a impegolarsi nel calcolo dei vantaggi che gli potrebbero derivare dalla sua trasgressione, come se qui ci fosse per lui ancora scelta.

Dunque il fatto che queste distinzioni (le quali, come si è appena mostrato, non sono così fini come crede il signor Garve, ma sono scritte nell'anima dell'essere umano con la scrittura più grossa e leggibile), vadano, come egli dice, del tutto perdute quando si tratta dell'agire, contraddice anche la propria esperienza. Certo non quella che delinea la storia delle massime create secondo l'uno o l'altro principio, perché qui purtroppo prova che esse scaturiscono in grandissima parte da quest'ultimo (l'egoismo), bensì l'esperienza che può essere solo interiore, per la quale nessuna idea eleva l'animo umano e lo ravviva fino all'ispirazione [Begeisterung] più di quella appunto di una intenzione (Gesinnung) morale pura, che venera sopra tutto il dovere, lotta contro innumerevoli mali della vita e anche contro le più seducenti attrazioni e tuttavia le vince (come giustamente si suppone sia facoltà dell'essere umano). Il fatto che l'essere umano sia consapevole di poterlo, perché lo deve, apre in lui una profondità di disposizioni divine che gli fa sentire quasi un brivido sacro dinanzi alla grandezza e alla sublimità della sua vera destinazione.[288] E se l'essere umano venisse più spesso reso attento e abituato a liberare interamente la virtù da ogni abbondanza di bottino da derivarsi dall'osservanza del dovere e a presentarsela in tutta la sua purezza, se nell'istruzione privata e pubblica si affermasse il principio di farne costantemente uso (un metodo per inculcare i doveri quasi sempre trascurato), allora le cose sarebbero presto migliori per l'eticità [Sittlichkeit] degli esseri umani. Del fatto che l'esperienza storica non abbia finora voluto provare la buona riuscita dalla dottrina della virtù è appunto pienamente colpevole il falso presupposto secondo cui il movente dedotto dall'idea del dovere in sé è di gran lunga troppo fine per il concetto comune, mentre agiscono sull'animo con più forza quelli più grossolani, tratti dai vantaggi da attendersi certamente in questo mondo, ma anche in un mondo futuro, dall'obbedienza alla legge (senza aver riguardo per la legge stessa come movente); e [ne è anche colpevole] la circostanza che finora si è preferito di dare priorità, per il principio dell'educazione e della predicazione dal pulpito, al perseguimento della felicità piuttosto che a quanto la ragione rende condizione suprema, cioè la dignità di essere felici. Infatti i precetti su come rendersi felici, o almeno su come riuscire a evitare il proprio danno, non sono comandi. Essi non vincolano nessuno assolutamente; e qualcuno, dopo essere stato avvertito, può scegliere ciò che gli pare buono, se si compiace di patire quello che gli accade. Non deve considerare i mali che potrebbero scaturire dal trascurare il consiglio a lui dato come causa di punizioni: queste infatti colpiscono solo la volontà libera, ma contraria alla legge: la natura e l'inclinazione non possono, tuttavia, dare leggi alla libertà. Le cose stanno in modo del tutto diverso nel caso dell'idea del dovere, la cui trasgressione, anche senza prendere in considerazione gli svantaggi che ne derivano, agisce immediatamente sull'animo e rende l'essere umano riprovevole e meritevole di punizione ai propri occhi.

Quindi questa è una dimostrazione chiara che tutto ciò che nella morale è giusto per la teoria deve valere anche per la pratica. Ciascuno, in qualità di essere umano, in quanto soggetto a certi doveri tramite la sua ragione, è un uomo che conduce una vita di relazione [Geschäftsmann] e poiché come essere umano non è mai troppo grande per la scuola della sapienza, non può, in quanto presumibilmente meglio informato dall'esperienza su che cos'è un uomo e su che cosa si possa richiedere da lui, rimandare alla scuola, con orgoglioso disprezzo, il sostenitore della teoria. Infatti tutta questa [289] esperienza non lo aiuta affatto a sottrarsi al precetto della teoria, ma in ogni caso solo [a capire] come essa possa venir indirizzata all'opera in modo migliore e più generale, se l'ha accolta fra i suoi princípi; non si discute, qui, di tale abilità pragmatica, ma solo di questi ultimi.

II. La relazione della teoria con la pratica nel diritto dello stato (contro Hobbes)

Fra tutti i contratti tramite cui una moltitudine di esseri umani si unisce in una società (pactum sociale), il contratto di edificazione di una costituzione civile fra di loro (pactum unionis civilis) è di specie così peculiare che, se ha certo, riguardo all'esecuzione, molto in comune con ogni altro (che è appunto altrettanto indirizzato a un qualche fine qualsiasi da promuovere in comune) differisce tuttavia da ogni altro essenzialmente nel principio della sua fondazione (costitutionis civilis). L'unione di molti per qualche (comune) fine (che tutti hanno) è rinvenibile in tutti i contratti di società; ma la loro unione che è fine in se stessa (che ciascuno deve avere), che [è] quindi in ciascuna delle relazioni esterne degli esseri umani in generale, i quali non possono fare a meno di incorrere in una influenza reciproca fra loro è dovere primo e incondizionato: una tale unione è rinvenibile solo in una società, nella misura in cui si trova nella situazione [Zustand] civile, cioè quando costituisce una cosa [Wesen] comune. Ebbene, il fine che è in sé dovere in tale rapporto esterno nonché la stessa suprema condizione formale (conditio sine qua non) di ogni rimanente dovere esterno è il diritto degli esseri umani sotto leggi coercitive pubbliche, tramite le quali possa essere determinato a ciascuno il suo e possa essere assicurato contro ogni interferenza altrui.

Ma il concetto di un diritto esterno in generale proviene interamente dal concetto di libertà nelle relazioni esterne reciproche degli esseri umani, e non ha nulla a che fare con il fine che tutti gli esseri umani hanno per natura (l'intenzione alla felicità) né col precetto [Vorschrift] dei mezzi per riuscire a ottenerlo: così che anche perciò quest'ultimo fine non deve assolutamente immischiarsi in quella legge come fondamento di determinazione del precetto stesso [derselben]. Diritto è la limitazione della libertà di ciascuno [290] alla condizione della sua armonia [Zusammenstimmung] con la libertà di ognuno, nella misura in cui essa è possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico è il complesso delle leggi esterne, le quali rendono possibile una tale armonia pervasiva [durchgängige]. Ora, poiché la limitazione della libertà tramite l'arbitrio di un altro si chiama coercizione, ne segue che la costituzione civile è una relazione di uomini liberi i quali (senza pregiudizio per la loro libertà nell'intero della loro unione con gli altri) stanno tuttavia sotto leggi coercitive: perché così vuole la ragione stessa, e precisamente la ragion pura, legislatrice a priori, che non ha riguardo per nessuno scopo empirico (tutti i fini simili sono compresi sotto il nome generale di felicità); siccome sullo scopo e su dove ciascuno vuole porlo gli esseri umani la pensano in modi del tutto diversi, la loro volontà non può essere ricondotta sotto un principio comune e quindi neppure sotto una legge esterna che si accordi con la libertà di ognuno.

Dunque la situazione [Zustand] civile, considerata come condizione meramente giuridica, si fonda sui seguenti princípi a priori:

  1. La libertà di ogni membro della società, come uomo
  2. L'uguaglianza dello stesso con ogni altro, come suddito
  3. L'indipendenza di ogni membro di una cosa comune, come cittadino

Questi princípi non sono leggi date dallo stato già istituito, bensì ciò secondo cui soltanto è possibile una istituzione di uno stato in conformità a princípi puri di ragione del diritto esterno degli esseri umani in generale. Quindi:

1. La libertà come essere umano, il cui principio per la costituzione di una cosa comune esprimo nella formula: nessuno mi può costringere a essere felice a modo suo (come egli si immagina il benessere degli altri esseri umani), ma a ognuno è permesso [darf] cercare la felicità per la via che a lui stesso pare buona, se solo non infrange la libertà altrui (cioè questo diritto dell'altro) di perseguire un fine simile, che possa consistere insieme con la libertà di ognuno secondo una possibile legge universale. - Un governo, che fosse istituito sul principio della benevolenza nei confronti del popolo come quella di un padre nei confronti dei suoi figli, cioè un governo paterno (imperium paternale), ove dunque i sudditi, come figli minorenni, che non sanno distinguere che cosa per loro sia veramente utile o dannoso,[291] sono necessitati a comportarsi in modo meramente passivo, per attendere solo dal giudizio del capo dello stato [Staatsoberhaupt] come debbano essere felici, e solo dalla sua benevolenza, che egli anche lo voglia, è il più grande dispotismo pensabile (una costituzione che abolisce ogni libertà dei sudditi, i quali dunque non hanno affatto diritti). Un governo non paterno ma patriottico (imperium non paternale, sed patrioticum) è quello che può venir pensato esclusivamente per esseri umani capaci di diritti, anche in rapporto alla benevolenza del dominatore. Patriottico è cioè il tipo di pensiero, dal momento che ciascuno nello stato (non escluso lo stesso capo) considera la cosa comune come il grembo materno, e il paese [Land] come il suolo paterno, dal quale e sul quale egli stesso nacque, e che deve anch'egli tramandare con un caro pegno, solo per proteggere i diritti di questa entità per mezzo di leggi della volontà collettiva [gemeinsamen Willens], ma non si considera autorizzato a sottometterlo, per l'uso, al suo piacere incondizionato. - Questo diritto della libertà spetta a lui, il membro della cosa comune, come essere umano, nella misura in cui, cioè, è un essere che è in generale capace di diritti.

2. L'uguaglianza come suddito, la cui formula può suonare così: ogni membro della cosa comune ha verso ogni altro diritti coercitivi, da cui solo il suo capo è escluso (perché non è un suo membro, ma il suo creatore e il suo conservatore), il quale soltanto ha la facoltà di costringere senza essere egli stesso soggetto a una legge coercitiva. Ma tutto ciò che sta sotto leggi in uno stato è suddito, e quindi sottoposto al diritto coercitivo analogamente a tutti gli altri membri della cosa comune; escluso uno solo (una persona fisica o morale), il capo dello stato, attraverso il quale soltanto ogni coercizione giuridica può essere esercitata. Infatti se anch'egli potesse essere costretto, non sarebbe il capo dello stato, e la serie della subordinazione salirebbe all'infinito. Ma se ce ne fossero due (persone libere da coercizione) allora nessuna delle due starebbe sotto leggi coercitive e non potrebbero farsi ingiustizia a vicenda; il che è impossibile.

Questa uguaglianza pervasiva degli esseri umani in uno stato, come suoi sudditi, è tuttavia interamente consistente con la massima disuguaglianza secondo la quantità e il grado della loro proprietà, sia per superiorità fisica o spirituale o per beni di fortuna fuori di loro,[292] o per diritti in generale (e ce ne possono essere molti) rispetto ad altri, così che il benessere dell'uno dipende molto dalla volontà dell'altro (il benessere del povero dalla volontà del ricco), che l'uno deve essere ubbidiente (come il bambino ai genitori o la donna all'uomo) e l'altro gli comanda, che l'uno serve (come il salariato a giornata) e l'altro remunera etc. Ma secondo il diritto (che come espressione della volontà generale [des allgemeinen Willens] può essere soltanto uno, e che riguarda la forma di cio che è legittimo, non la materia o l'oggetto su cui ho un diritto) essi sono nondimeno, come sudditi, tutti reciprocamente uguali: perché nessuno può costringere qualcun altro, se non tramite la legge pubblica (e il suo esecutore, il capo dello stato), ma tramite questa anche ogni altro gli si oppone in ugual misura, nessuno tuttavia può perdere questa facoltà [293] di costringere (e quindi di avere un diritto verso gli altri) se non per un suo proprio delitto, e non può neppure rinunciarvi da sé, cioè attraverso un contratto, facendo quindi sì, con un'azione giuridica, da non avere diritti, bensì solo doveri: infatti così si spoglierebbe da sé del diritto di concludere un contratto, e quindi un tale contratto annullerebbe se stesso.

Da quest'idea dell'uguaglianza degli esseri umani nell'entità comune in quanto sudditi deriva ora anche la formula: ogni suo membro deve aver facoltà di arrivare a quel livello di ceto [Stand] (che può addirsi a un suddito) cui lo possono portare il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna, e ai suoi consudditi non è permesso sbarrargli la strada con una prerogativa ereditaria (come privilegiati per un certo ceto), per tenere eternamente sottomessi lui e la sua discendenza.

Infatti, poiché ogni diritto consiste meramente nella limitazione della libertà di ogni altro alla condizione che essa possa coesistere insieme con la mia secondo una legge universale, e il diritto pubblico (in una entità comune) è meramente la situazione [Zustand] di una legislazione effettiva, conforme a questo principio e connessa con la forza [Macht], in virtù della quale tutti gli appartenenti a un popolo si trovano come sudditi in uno stato giuridico (status iuridicus) in generale, cioè di uguaglianza di azione e di reazione di un arbitrio reciprocamente limitante in conformità alla legge universale della libertà, (che si chiama situazione [Zustand] civile): così è assolutamente uguale il diritto innato (cioè prima di ogni suo atto giuridico) di ciascuno in questa situazione [Zustand], in considerazione della facoltà di costringere ogni altro, affinché [ciascuno] rimanga sempre entro i limiti dell'unisono [Einstimmung] dell'uso della sua libertà con la mia. Ora, poiché la nascita non è un atto di chi è nato, per nascita non gli può dunque esser derivata nessuna disuguaglianza di stato [Zustand] giuridico e nessuna sottomissione a leggi coercitive se non meramente quella che gli è comune con tutti gli altri, come suddito dell'unico potere legislativo supremo: così non ci può essere un privilegio innato di un membro dell'entità comune come consuddito davanti all'altro. E nessuno può trasmettere in eredità alla sua progenie il privilegio di ceto che ha, come se fosse qualificato per nascita al ceto signorile, e quindi neppure impedire coercitivamente di arrivare per proprio merito ai più alti gradi della subordinazione (di superior ed inferior, fra i quali però l'uno non è imperans, né l'altro subiectus). Può trasmettere in eredità tutto il resto, che è cosa (non riguarda la personalità) e, come proprietà, può essere da lui acquistato e anche alienato, e così produrre in una serie di discendenza una disuguaglianza considerevole nelle condizioni patrimoniali fra i membri di una cosa comune (del mercenario e dell'affittuario, del proprietario terriero e dei servi agricoltori); soltanto non può impedire che questi, quando il loro talento, la loro operosità e la loro fortuna glielo rendono possibile, abbiano facoltà di elevarsi a pari condizioni. Infatti altrimenti egli potrebbe costringere senza poter essere a sua volta costretto dalla reazione altrui, e andare oltre il grado di consuddito. - Né da questa uguaglianza può decadere nessun essere umano che viva nella situazione [Zustand] giuridica di una cosa comune, se non per un suo proprio delitto, ma mai tramite un contratto o per violenza bellica (occupatio bellica): infatti con nessun atto giuridico (né suo proprio, né altrui) può smettere di essere possessore di se stesso ed entrare nell'insieme del bestiame domestico, che si usa come si vuole per tutti i servizi e vi si mantiene per il tempo che si vuole anche senza il suo assenso, sebbene con la limitazione (che talvolta viene anche sanzionata con la religione, come presso gli Indiani) di non storpiarlo o ucciderlo. Lo si può presumere felice in ogni situazione [Zustand] se solo è consapevole che il fatto che [294] non salga allo stesso livello degli altri, i quali come suoi consudditi, per ciò che riguarda il diritto, non gli passano avanti in nulla, 153 è imputabile esclusivamente a lui stesso (alla sua capacità o alla sua volontà scrupolosa) o a circostanze di cui non può dar colpa a qualcun altro, e non alla volontà irresistibile altrui.

3. L'indipendenza (sibisufficientia) di un membro della cosa comune come cittadino, cioè come colegislatore. Proprio in tema di legislazione tutti quelli che sono liberi e uguali sotto leggi pubbliche già presenti, non sono però da considerare come tutti uguali per quanto riguarda il diritto di dare queste leggi. Coloro che non sono capaci di questo diritto sono ugualmente soggetti all'osservanza di queste leggi come membri della cosa comune e per ciò partecipi della protezione secondo le leggi medesime: solo, non come cittadini, ma come consociati protetti [Schutzgenossen]. 154 - Infatti ogni diritto dipende da leggi. Ma una legge pubblica, che determina per tutti che cosa deve essere loro permesso o no, è l'atto di una volontà pubblica dalla quale deriva ogni diritto e che dunque non deve poter fare ingiustizia a nessuno. Ciò però non è possibile a nessun'altra volontà se non quella del popolo intero (in cui tutti decidono su tutti e quindi ciascuno su se stesso): infatti soltanto [295] a se stessi non è possibile fare ingiustizia. Ma se [a decidere] è un altro, allora la mera volontà di uno diverso dall'interessato non può decidere su di lui qualcosa che non possa essere ingiusto; di conseguenza la sua legge richiederebbe ancora un'altra legge che limitasse la sua legislazione e quindi nessuna volontà particolare può essere legislatrice per una cosa comune. (Propriamente, a formare questo concetto, concorrono i concetti di libertà esterna, uguaglianza e unità della volontà di tutti, per la quale ultima la condizione è l'indipendenza, se le prime due sono [com]prese insieme) Questa legge fondamentale, che può scaturire solo della volontà generale (unita) del popolo, si chiama contratto originario.

Ora, chi ha il diritto di voto in questa legislazione si chiama cittadino (citoyen, cioè cittadino dello stato, non cittadino della città, bourgeois). La qualità da richiedersi per essere tale, oltre a quella naturale (non essere né bambino, né donna) è una sola; che egli sia suo proprio signore (sui iuris) e quindi abbia una qualche proprietà (come tale può annoverarsi ogni arte, artigianato, arte bella o scienza) che gli dia da mangiare: cioè che nei casi in cui debba venir retribuito da altri per vivere, lo sia solo tramite l'alienazione di ciò che è suo, 155 non tramite la concessione, da lui data ad altri, di far uso delle sue forze, e perciò non serva, nel senso proprio della parola, nessuno se non la cosa comune. Ora, qui chi esercita un'arte e i grandi (e piccoli) proprietari terrieri sono tutti uguali,[296] cioè ciascuno ha titolo soltanto a un voto. Infatti per quanto concerne i secondi, senza tener conto della questione di come possa essere accaduto con diritto che qualcuno sia pervenuto a ottenere in proprietà più terra di quanta ne potesse far uso da sé con le sue mani (perché l'acquisto tramite occupazione bellica non è un primo acquisto); e di come accadde che molti esseri umani, che altrimenti avrebbero potuto ottenere una condizione di possesso stabile, siano stati condotti fino al punto di mettersi al suo servizio per poter vivere, sarebbe già in conflitto con il precedente principio di uguaglianza, se una legge li privilegiasse con la prerogativa del ceto, che i loro discendenti dovessero rimanere per sempre grandi proprietari (di feudi), senza che sia permesso venderli o suddividerli con la successione e quindi renderli utili a più persone nel popolo, o anche che in queste suddivisioni non potesse acquistare qualcosa nessuno se non gli appartenenti a una certa classe di esseri umani arbitrariamente predisposta. Il grande possidente, cioè, annulla tanti possidenti minori con i loro voti, quanti ne potrebbero stare al suo posto; quindi non vota a loro nome e ha perciò solo un voto. - Poiché si deve far dipendere solo dalla capacità, dall'operosità e dalla fortuna di ciascun membro della cosa comune che ciascuno ne ottenga una volta una parte e tutti l'intero, ma questa differenza non può essere messa in conto nella legislazione universale, il numero di chi è capace di votare per la legislazione deve essere valutato secondo le teste di chi è nella condizione di proprietario [Besitzstand] e non secondo la grandezza dei possedimenti.

Però su questa legge della giustizia pubblica devono inoltre essere concordi tutti coloro che hanno tale diritto di voto: infatti altrimenti fra chi non è d'accordo e i primi ci sarebbe una contesa giuridica, la quale, per essere decisa, avrebbe bisogno a sua volta di un principio giuridico superiore. Quindi, se non si può attendere la prima cosa da un popolo intero, allora quello che si può prevedere come raggiungibile è solo una maggioranza dei voti, e certo non immediatamente dei votanti (in un popolo grande) bensì solo dei rappresentanti del popolo appositamente delegati. Così però il principio stesso di accontentarsi di questa maggioranza, in quanto accettato con un accordo universale, cioè con un contratto, deve essere il fondamento supremo dell'istituzione di una costituzione civile.[297]

Corollario

C'è dunque un contratto originario, sul quale soltanto fra gli esseri umani può essere fondata una costituzione civile e quindi pervasivamente giuridica, e istituita una cosa comune. Questo contratto soltanto (detto contractus originarius o pactum sociale), come coalizione di ogni volontà particolare e privata in un popolo per una volontà comunitaria e pubblica (al fine di una legislazione semplicemente giuridica) non è per nulla necessario presupporlo come un fatto (anzi come tale non è affatto possibile); quasi come se, per stimare noi stessi vincolati a una costituzione civile già esistente, si dovesse innanzitutto provare prima dalla storia che un popolo, nei cui diritti e obbligazioni noi siamo entrati in quanto discendenti, debba avere, una volta, compiuto effettivamente un tale atto e avercene lasciato, oralmente o per iscritto, una notizia sicura o un documento. È invece una mera idea della ragione, che però ha la sua indubbia realtà (pratica): cioè obbligare ogni legislatore a fare le sue leggi come possono essere scaturite dalla volontà unita di un intero popolo, e considerare ogni suddito, nella misura in cui vuole essere cittadino, come se egli si fosse accordato insieme per una tale volontà. Infatti questa è la pietra di paragone della legittimità [Rechtmäßigkeit] di ogni legge pubblica. Cioè se essa è fatta così che un popolo intero non potrebbe darle il suo assenso (come per esempio [una legge la quale stabilisse] che una certa classe di sudditi dovesse avere ereditariamente il privilegio di ceto signorile), allora non è giusta; ma se è solo possibile che un popolo vi si accordi, allora è dovere considerare giusta la legge; anche posto che il popolo fosse ora in una posizione o in una tonalità del suo modo di pensare tale che, se fosse interpellato, rifiuterebbe verosimilmente il suo assenso. 156

Ma questa limitazione vale evidentemente solo per il giudizio del legislatore, non del suddito. Se perciò un popolo sotto una certa legislazione ora effettiva dovesse giudicare con la massima verosimiglianza di star perdendo la propria felicità, che si deve fare per questo? [298] Non ci si deve opporre? La risposta può essere solo: non c'è niente da fare se non ubbidire. Infatti qui non si parla della felicità che i sudditi si devono aspettare dall'istituzione o dall'amministrazione della cosa comune; bensì in primo luogo soltanto del diritto che per suo tramite deve essere assicurato a ognuno: esso è il principio supremo, da cui devono derivare tutte le massime che riguardano una cosa comune, e che non è limitato da nessun altro. In considerazione della prima (la felicità) non può essere affatto dato per legge un principio universalmente valido. Infatti tanto le circostanze temporali quanto le illusioni sempre in reciproco contrasto e perciò sempre mutevoli, in cui ciascuno pone la sua felicità (ma dove la debba porre, nessuno glielo può prescrivere) rende impossibile, e di per sé soltanto inutilizzabile a principio della legislazione, ogni fondamento [Grundsatz] saldo. La frase: salus publica suprema civitatis lex est 157 resta nel suo non diminuito valore e autorità; ma la salute pubblica, la quale è per prima da prendere in considerazione, è appunto quella costituzione legale che assicura a ciascuno la sua libertà tramite leggi; in ciò rimane consentito a ciascuno di cercare la sua felicità in ogni modo che gli paia migliore, se solo non lede quella libertà universale secondo la legge e quindi il diritto di altri consudditi.

Quando il potere supremo dà leggi che sono indirizzate in primo luogo alla felicità (la ricchezza dei cittadini, il popolamento e simili), questo non avviene in quanto scopo dell'istituzione di una costituzione civile ma semplicemente come mezzo di assicurare la situazione [Zustand] giuridica, in particolare contro nemici esterni del popolo. Su questo il capo dello stato deve aver facoltà di giudicare da sé e da solo se una cosa del genere è pertinente alla fioritura della cosa comune che è richiesta per assicurare la sua forza e stabilità tanto internamente, quanto contro nemici esterni; ma non rendere il popolo felice quasi contro la sua volontà [299], bensì solo fare in modo che esso esista come cosa comune. 158 Ora, in questo giudizio se quella misura sia stata o no presa prudentemente [klüglich], il legislatore può certamente errare, ma non in quello in cui chiede a se stesso se la legge si accorda o no col principio del diritto; infatti in questo caso ha sottomano quell'idea del contratto originario come unità di misura infallibile (e non può [darf], come nel principio della felicità, attendere esperienze che lo devono innanzitutto istruire sull'appropriatezza dei suoi mezzi). Infatti se solo il fatto che un intero popolo sia concorde su una tale legge non contraddice se stesso, essa può anche risultargli aspra quanto voglia, ma è conforme al diritto. Ma se una legge pubblica è a questo conforme, e conseguentemente inappuntabile riguardo al diritto (irreprensibile), le è anche connessa la facoltà di costringere e, dall'altro lato, il divieto di resistere, anche non violentemente, alla volontà del legislatore: cioè il potere nello stato che dà effetto alla legge è anche non resistibile (irresistibile) e non esiste nessuna entità comune giuridicamente consistente senza una tale forza [Gewalt] che sopprime ogni resistenza interna, perché questa avverrebbe secondo una massima la quale, resa universale, annullerebbe ogni costituzione civile e sradicherebbe lo stato [Zustand] nel quale soltanto gli esseri umani possono essere in generale in possesso di diritti.

Ne segue che ogni resistenza contro il supremo potere legislativo, ogni istigazione a far passare alle vie di fatto lo scontento dei sudditi, ogni sollevazione che esploda in ribellione, è il delitto supremo e più meritevole di pena nella cosa comune, perché ne distrugge le fondamenta. E questo divieto è incondizionato: così che quel potere o il suo agente, il capo dello stato, può anche aver infranto il contratto originario e perciò essersi privato, secondo il concetto del suddito, del diritto di essere legislatore, dando al governo potestà di procedere in modo assolutamente violento (tirannico), ma al suddito non rimane permessa una reazione [Gegengewalt]. Il motivo di ciò è: perché in una costituzione civile già esistente [300] il popolo non ha più la facoltà, stabilita secondo il diritto, di giudicare come quella debba essere amministrata. Si ponga infatti che il popolo abbia una tale facoltà, addirittura contro il giudizio del capo dello stato effettivo: chi deve decidere da che parte sia il diritto? Nessuno dei due può agire come giudice in causa propria. Quindi ci deve essere ancora un capo al di sopra del capo, che decida fra questo e il popolo: il che si contraddice. - E non si può neppure introdurre un diritto di necessità (ius in casu necessitatis), che in ogni modo, come diritto presunto di fare torto nella suprema necessità (fisica), è un controsenso [Unding], 159 né cedere la chiave della barriera che limita il potere che il popolo si prende [Eigenmacht] . Infatti il capo dello stato è in grado di giustificare il suo trattamento duro nei confronti dei sudditi con la loro indocilità proprio come questi ultimi possono giustificare la loro ribellione contro di lui col lamento sulla loro indebita sofferenza; e qui allora chi deve decidere? Chi si trova in possesso della cura suprema del diritto pubblico, ed è appunto il capo dello stato, questi soltanto lo può fare; e quindi nessuno nella cosa comune può avere diritto a rendergli questo possesso controverso.[301]

Nondimeno, trovo uomini rispettabili che sostengono, a certe condizioni, questa facoltà del suddito di reagire contro il suo superiore, fra i quali voglio qui citare soltanto Achenwall, molto cauto, preciso e moderato nella sua dottrina del diritto naturale. 160 Egli dice: «Se il pericolo che incombe sulla cosa comune a causa di una più lunga tolleranza dell'ingiustizia del capo fosse maggiore di quello che può essere temuto dal ricorso alle armi contro di lui, allora il popolo potrebbe resistergli, recedere, per l'uso di questo diritto, da questo contratto di sottomissione e detronizzarlo in quanto tiranno.» e conclude in proposito: «In questo modo (relativamente al suo precedente principe) il popolo ritorna nello stato di natura».

Mi piace credere che né Achenwall né nessun altro degli uomini di valore che, su questo tema, hanno sofisticato in consonanza con lui, avrebbero mai dato in un qualche caso sopravveniente il loro consiglio o il loro assenso a intraprese così pericolose; e c'è poco da dubitare che, se fossero fallite quelle ribellioni tramite cui la Svizzera, le Province Unite dei Paesi Bassi o anche la Gran Bretagna hanno conquistato la loro attuale costituzione celebrata come così felice, i lettori di queste stesse storie vedrebbero nell'esecuzione dei loro iniziatori, ora così esaltati, nient'altro che la meritata punizione di grandi criminali contro lo stato [Staatsverbrecher 161 ]. Infatti di solito la riuscita si intromette nel nostro giudizio sui fondamenti giuridici, per quanto quella sia incerta ma questi certi. È chiaro però che, per quanto riguarda questi ultimi, anche se si concede che tramite una tale ribellione al principe del paese (che avesse eventualmente violato una joyeuse entrée 162 come contratto che stia effettivamente a fondamento nel suo rapporto col popolo) non avvenga nessuna ingiustizia - il popolo tuttavia con questo modo di perseguire il suo diritto ha compiuto in sommo grado ingiustizia: perché tale modo (accolto come massima) rende insicura ogni costituzione giuridica e introduce lo stato [Zustand] di una completa mancanza di legge (status naturalis), ove ogni diritto smette, come minimo, di avere effetto. In questa propensione di tanti scrittori ben pensanti a parlare in difesa del popolo (per la sua propria corruzione) io voglio solo notare che ne è la causa in parte l'inganno consueto di sostituire nei suoi giudizi, quando il discorso è sul principio del diritto, il principio della felicità; e in parte, mentre non si trova nessuna attestazione di un contratto sottoposto effettivamente alla cosa comune,[302] accettato dallo stesso capo e da entrambi sanzionato, essi hanno assunto l'idea di un contratto originario, che sta sempre a fondamento nella ragione, come qualcosa che debba essere effettivamente accaduto, e così hanno opinato di conservare sempre al popolo la facoltà di uscirne a sua discrezione, nel caso di una violazione grande, ma giudicata per tale dal popolo stesso. 163

Qui si vede chiaramente quale male produce il principio della felicità [Glückseligkeit] (che non è affatto capace, propriamente, di un principio determinato) anche nel diritto dello stato come fa nella morale, anche con le migliori intenzioni dei suoi maestri. Il sovrano vuole rendere il popolo felice secondo i suoi concetti e diventa despota; il popolo non vuol lasciarsi prendere l'universale esigenza umana della propria felicità e diventa ribelle. Se si fosse chiesto, prima di tutto, che cosa è proprio della giustificazione secondo il diritto (nella quale i princípi a priori stanno fissi e nessun empirico può pasticciare [pfuschen]), l'idea del contratto sociale sarebbe rimasta nella sua incontestabile autorità: ma non in quanto fatto (come vuole Danton, 164 senza il quale egli dichiara nulli tutti i diritti e proprietà che si trovano nella costituzione civile effettivamente esistente), bensì solo come principio di ragione per il giudizio di ogni costituzione giuridica pubblica in generale. E ci si renderebbe conto che prima che ci sia la volontà generale il popolo non possiede affatto un diritto coercitivo nei confronti del suo signore, perché solo tramite questa lo può giuridicamente costringere; ma anche se c'è, non ha altrettanto luogo una coercizione da esercitarsi da parte sua contro di lui, perché allora il popolo stesso sarebbe il signore supremo; e quindi al popolo, nei confronti del capo dello stato, non spetta mai un diritto coercitivo (resistenza in parole o azioni).[303]

Vediamo questa teoria confermata a sufficienza anche nella pratica. Nella costituzione 165 della Gran Bretagna, dove il popolo si dà tante arie della sua organizzazione costituzionale, come se fosse il modello per tutto il mondo, troviamo però che essa tace interamente sulla potestà che spetta al popolo nel caso in cui il monarca dovesse trasgredire il contratto del 1688; se lo volesse violare, il popolo si riserva perciò in segreto la ribellione, poiché non c'è una legge in merito. Che la costituzione, infatti, contenga in questo caso una legge la quale autorizzi a rovesciare la costituzione sussistente, da cui derivano tutte le leggi particolari (anche ammesso che il contratto sia violato), è una chiara contraddizione: perché allora dovrebbe anche contenere un contropotere pubblicamente costituito, 166 e quindi ci dovrebbe essere un secondo capo dello stato, che protegga i diritti del popolo contro il primo, ma poi anche un terzo, il quale decida, fra entrambi, da che parte è il diritto. - Quei demagoghi (o, se si vuole, tutori del popolo), preoccupati a causa di una tale accusa se la loro impresa fallisse, hanno anche preferito attribuire falsamente al monarca da loro intimorito al punto da farlo fuggire una abdicazione volontaria al governo, piuttosto che arrogarsi il diritto a deporlo, con il quale avrebbero messo la costituzione in evidente contraddizione con se stessa.

Ora, se certamente, in queste mie affermazioni, non mi si farà il rimprovero di adulare troppo i monarchi con questa inviolabilità, spero mi si risparmierà anche quello di argomentare troppo a favore del popolo, se dico che esso, analogamente, ha i suoi diritti incancellabili nei confronti del capo dello stato, sebbene non possano essere diritti coercitivi.

Hobbes è di opinione opposta. Secondo lui (De cive, cap. 7, § 14) il capo dello stato col contratto non è obbligato a nulla nei confronti del popolo e non può fare ingiustizia al cittadino (può disporre su di lui quello che che vuole). - Questa affermazione sarebbe del tutto giusta, se nel novero dell'ingiustizia si comprende quella lesione che accorda all'offeso [304] un diritto coercitivo contro chi gli fa ingiustizia; ma così in generale l'affermazione è spaventosa.

Il suddito non recalcitrante deve poter assumere che il suo principe non voglia fargli ingiustizia. Quindi, poiché ogni essere umano ha tuttavia i suoi diritti incancellabili cui non può mai rinunciare neanche se lo volesse e su cui egli stesso è autorizzato a giudicare, ma l'ingiustizia che gli capita, secondo la sua opinione, avviene, dal punto di vista di quel presupposto, solo per errore o per disinformazione del potere supremo su certe conseguenze delle leggi; così deve spettare al cittadino dello stato, e in verità con favore del principe stesso, la facoltà di rendere pubblicamente nota la sua opinione su ciò che, nelle disposizioni di quest'ultimo, gli sembra una ingiustizia verso la cosa comune. Infatti assumere che il capo non possa mai sbagliare o essere disinformato su una cosa sarebbe immaginarselo dotato della grazia di ispirazioni celesti ed elevato al di sopra dell'umanità. Dunque la libertà della penna - nei limiti del rispetto e dell'amore per la costituzione in cui si vive, mantenuta tramite il modo di pensare liberale dei sudditi, che ispira quella stessa ancora di più (e qui anche le penne si limitano reciprocamente da sé, così da non perdere la loro libertà) – è l'unico palladio dei diritti del popolo. Infatti volergli negare anche questa libertà non è soltanto come volergli togliere ogni pretesa di diritto nei riguardi del comandante supremo (secondo Hobbes) ma anche sottrarre a quest'ultimo, la cui volontà dà comandi ai sudditi in quanto cittadini semplicemente perché rappresenta la volontà generale del popolo, ogni conoscenza su quanto egli stesso cambierebbe se lo sapesse, e metterlo in contraddizione con se stesso. Ma infondere al capo la preoccupazione che nello stato si possano eccitare disordini per il pensare da sé e ad alta voce, significa suscitare in lui sfiducia nel proprio potere o anche odio nei confronti del suo popolo. Però il principio generale, secondo cui un popolo ha i suoi diritti negativamente, cioè di giudicare meramente che cosa non potrebbe essere considerato come prescritto dalla suprema legislazione con tutta la sua buona volontà, è contenuto in questa proposizione: ciò che un popolo non può decretare su se stesso non può decretarlo neppure il legislatore sul popolo.

Se dunque per esempio la questione è se una legge che imponesse come stabilmente durevole una certa costituzione ecclesiastica [305] una volta disposta potrebbe essere considerata come proveniente dalla volontà autentica del legislatore (dalla sua intenzione), ci si chieda prima, allora, se un popolo possa [dürfe] rendere legge per se stesso che certe proposizioni di fede e forme della religione esteriore una volta adottate debbano rimanere per sempre; dunque se possa impedire a se stesso, nella sua posterità, di progredire ulteriormente nelle visioni religiose o emendare eventuali vecchi errori. Qui e ora diventa chiaro che un contratto originario del popolo che facesse questo legge sarebbe in se stesso nullo, perché contrasta con la determinazione e gli scopi dell'umanità; quindi una legge data in questo modo non è da considerarsi l'autentica volontà del monarca al quale dunque possono farsi rimostranze. - Ma in ogni caso, se qualcosa fosse comunque così disposto dalla suprema legislazione, giudizi universali e pubblici su questo possono certamente essere accolti con favore, ma non può mai esservi proclamata contro una resistenza a parole o di fatto.

In ogni cosa comune ci deve essere una obbedienza sotto il meccanismo della costituzione dello stato secondo leggi coercitive (che vanno all'intero), ma nello stesso tempo uno spirito di libertà, poiché ciascuno, su quanto concerne il dovere universale degli esseri umani, esige di essere convinto con la ragione che questa coercizione sia legittima, per non cadere in contraddizione con se stesso. La prima senza il secondo è la causa scatenante di tutte le società segrete. Infatti è una vocazione naturale dell'umanità stare reciprocamente in comunicazione, soprattutto in ciò che concerne l'essere umano in generale; quindi quelle società cadrebbero in desuetudine se questa libertà fosse agevolata. - E attraverso che cosa altrimenti possono pervenire anche al governo le conoscenze che promuovono il suo proprio intento essenziale, se non dal fatto che esso lasci esprimere quello spirito di libertà così degno di rispetto nella sua origine e nei suoi effetti?

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Da nessuna parte una pratica che trascura tutti i princípi puri di ragione pretende di giudicare con più arroganza sulla teoria che sulla questione dei requisiti di una buona costituzione statuale. La causa è perché una costituzione legale lungamente esistita abitua a poco a poco il popolo alla consuetudine di giudicare della sua felicità come dei suoi diritti secondo la situazione [Zustand] in cui tutto è stato finora nel suo quieto procedere; e non di valutare viceversa quest'ultima secondo i concetti [306] di entrambi che gli sono messi in mano dalla ragione: anzi continuare sempre a preferire quello stato [Zustand] passivo alla posizione pericolosa di cercarne uno migliore (ove vale ciò che Ippocrate dà da considerare ai medici: iudicium anceps, experimentum periculosum). 167 Ebbene, poiché tutte le costituzioni esistite abbastanza a lungo possono avere tutte le manchevolezze che si vogliono, ma in tutta la loro diversità danno un risultato dello stesso tipo, e cioè essere contenti di quella in cui si è; così, se si guarda al benessere del popolo, non vale propriamente nessuna teoria ma tutto riposa su una pratica obbediente all'esperienza.

Ma se nella ragione c'è qualcosa che si fa esprimere con la parola diritto dello stato, e questo concetto ha forza vincolante per esseri umani che stanno in antagonismo reciproco della loro libertà, e quindi ha realtà oggettiva (pratica) senza che si abbia ancora facoltà [darf] di guardare al benessere o malessere che ne possono derivare (la cui conoscenza riposa meramente sull'esperienza), allora [questo diritto] si fonda su princípi a priori (infatti che cosa è diritto non lo può insegnare l'esperienza) e così c'è una teoria del diritto dello stato senza unisono con la quale nessuna pratica è valida.

Contro ciò non si può escogitare nulla, se non che, sebbene gli esseri umani abbiano in testa l'idea di diritti loro spettanti, sarebbero però per via della loro durezza di cuore incapaci e indegni di essere trattati in tal modo e perciò potrebbe e dovrebbe tenerli in ordine una forza [Gewalt] suprema che procede meramente secondo regole di prudenza. Ma questo salto della disperazione (salto mortale) è del tipo che, una volta che non si tratti di diritto, ma di forza, il popolo avrebbe facoltà [dürfe] di tentare la sua e così rendere insicura ogni costituzione legale. Se non c'è qualcosa che estorce immediatamente rispetto tramite la ragione (come il diritto dell'uomo), allora tutti gli influssi sull'arbitrio degli uomini sono impotenti a domarne la libertà; ma se, accanto alla benevolenza, parla forte il diritto, la natura umana non si mostra così degenerata che la sua voce non venga ascoltata con deferenza. (Tum pietate gravem meritisque si forte virum quem Conspexere, silent arrectisque auribus adstant. Virgilio) 168 [307]

III. La relazione della teoria con la pratica nel diritto internazionale. Considerata con un intento universalmente filantropico, cioè cosmopolitico (contro Moses Mendelssohn) 169

Il genere umano nella sua interezza è da amare, oppure è un oggetto che si deve considerare con sdegno, a cui certo si augura ogni bene (per non diventare misantropi), ma senza aspettarselo da lui e dunque preferibilmente distoglierne gli occhi? La risposta a questa domanda riposa sulla replica che si darà a un'altra: nella natura umana ci sono disposizioni da cui si possa credere che il genere progredirà sempre verso il meglio e il male dei tempi presenti e passati scomparirà nel bene di quelli futuri? Così, infatti, potremmo amare il genere almeno nella sua costante approssimazione al bene; altrimenti dovremmo odiarlo o disprezzarlo, ne dica pure quello che vuole l'affettazione di un amore universale per l'umanità (che allora sarebbe al più solo un amore di benevolenza e non di compiacimento). Perché ciò che è e resta cattivo, specialmente nella violazione scambievole e premeditata dei diritti umani più sacri, non si può evitare di odiarlo – anche con il massimo sforzo di estorcere amore in se stessi – non per far proprio del male agli esseri umani, ma per avere a che fare con loro il meno possibile.

Moses Mendelssohn era di quest'ultima opinione (Jerusalem, parte II, pp.44-47), 170 che contrappone all'ipotesi del suo amico Lessing di una educazione divina del genere umano. Per lui è una trama cerebrale «che l'intero, l'umanità quaggiù debba muoversi sempre in avanti e perfezionarsi nella successione dei tempi.- Noi vediamo» egli dice «il genere umano nella sua interezza fare piccole oscillazioni; e non compiere mai qualche passo in avanti senza poco dopo scivolare di nuovo, a velocità doppia, nel suo stato anteriore.» (Questa è appunto la pietra di Sisifo; 171 e [308] in questa maniera si assume, come l'indiano, la terra in quanto luogo di espiazione di antichi peccati ora non più presenti alla memoria.) «L'essere umano progredisce, ma l'umanità oscilla perennemente su e giù entro limiti determinati; ma, considerata nella sua interezza, conserva in tutti i periodi di tempo circa lo stesso livello di eticità, la medesima misura di religione ed empietà, di virtù e di vizio, di felicità (?) e infelicità.» Introduce (p. 46) queste affermazioni dicendo: «Volete indovinare quali intenti ha la provvidenza con l'umanità? Non fate ipotesi» (prima l'aveva chiamata teoria) «guardate soltanto intorno, a ciò che accade effettivamente, e, se potete gettare uno sguardo d'insieme sulla storia di tutti i tempi, a ciò che è accaduto da sempre. Questo è dato di fatto; questo deve essere stato parte dell'intento, deve essere stato consentito nel piano della sapienza, o almeno esservi stato accolto.»

Io sono di un'altra opinione. - Se è uno spettacolo degno di una divinità vedere un uomo virtuoso battersi contro avversità e tentazioni al male e tuttavia tenervi testa, così è sommamente indegno non voglio dire di una divinità, bensì anche dell'uomo più comune, ma di pensiero retto, vedere il genere umano compiere, di periodo in periodo, passi che lo innalzano alla virtù e ricadere subito altrettanto in basso nel vizio e nella miseria. Stare a guardare un momento di questa tragedia può forse essere commovente e istruttivo, ma alla fine deve pur calare il sipario. Infatti a lungo andare diventa una farsa: e se gli attori non se ne stancano subito, perché sono pazzi, se ne stanca però lo spettatore, che all'uno o all'altro atto ne ha abbastanza, quando può fondatamente derivarne che il dramma che non arriva mai alla fine è una eterna monotonia. La conseguente punizione finale può certo d'altra parte, se è un mero spettacolo teatrale, placare con l'uscita le percezioni spiacevoli. Ma nella realtà effettuale lasciar ammucchiare l'uno sull'altro vizi innumerevoli (seppure con virtù che vi si frappongono) così che un giorno possano essere puniti assai a dovere è, almeno secondo i nostri concetti, addirittura contrario alla moralità di un creatore e governatore del mondo sapiente.

Io potrò dunque assumere che il genere umano sia costantemente in movimento riguardo alla cultura, in quanto suo fine naturale, ma che sia concepito anche in progresso verso il meglio riguardo [309] al fine morale del suo esistere, e che questo sarà certo talvolta interrotto, ma mai spezzato. Non ho bisogno di dimostrare questo presupposto: è l'avversario a doverlo provare. Infatti io mi reggo sul mio dovere innato, in ogni membro della serie delle generazioni – in cui sono, come essere umano in generale, sebbene nella qualità morale a me richiesta, non così buono come potrei, e dunque anche dovrei, essere – di agire sulla posterità in modo che diventi sempre migliore (anche la possibilità della qual cosa deve quindi essere assunta) e che questo dovere possa essere legittimamente trasmesso in eredità da un membro all'altro delle generazioni. Ora, dalla storia potrebbero essere prodotti ancora tanti dubbi che, se fossero probanti, mi potrebbero indurre a desistere da un lavoro, secondo l'apparenza, vano; però, finché questo soltanto non possa essere reso interamente chiaro, io non posso scambiare il dovere (come il liquidum) 172 con la regola di prudenza di non mirare a quel che non è fattibile (come l'illiquidum, perché è una mera ipotesi); e così posso sempre essere e rimanere incerto se per il genere umano sia da sperare il meglio, e però questo non può compromettere la massima, e quindi neppure il suo presupposto necessario in un intento pratico, che ciò sia fattibile.

Questa speranza di tempi migliori, senza la quale un desiderio serio di fare qualcosa di utile per il bene universale non avrebbe mai scaldato il cuore umano, ha anche in ogni tempo influito sull'elaborazione di chi pensa rettamente; e il buon Mendelssohn doveva pur aver contato anche su questo, quando si affaticava con tanto ardore per il rischiaramento e il benessere della nazione di cui faceva parte. Infatti non poteva ragionevolmente sperare di produrli da sé e per se solo se dopo di lui altri non fossero andati avanti sulla stessa strada. Nel triste spettacolo non tanto dei mali che opprimono il genere umano per cause naturali, quanto di quelli che gli esseri umani si infliggono a vicenda da sé, l'animo si rasserena però con la prospettiva che in futuro possa andar meglio, e certo con una benevolenza non egoistica, perché noi saremo da luogo tempo nella tomba e non raccoglieremo i frutti che noi stessi abbiamo in parte seminato. Qui non ottengono nulla i motivi probatori empirici contro la riuscita di queste decisioni prese sulla base della speranza. Infatti la tesi secondo cui quanto finora non è ancora riuscito per questa ragione non riuscirà mai, non giustifica neppure la rinuncia [310] a un intento pragmatico o tecnico (come per esempio quello dei viaggi aerei con palloni aerostatici); ma ancor meno giustifica la rinuncia a uno morale, che diventa dovere, purché la sua attuazione non sia evidentemente impossibile. In più si può offrire qualche prova che nella nostra epoca, a confronto con tutte le precedenti, il genere umano nella sua interezza, sia effettivamente avanzato verso il meglio in modo considerevole, dal punto di vista morale (impedimenti di breve durata non possono dimostrare nulla in contrario); e che il clamore sulla sua degenerazione inarrestabilmente crescente deriva dal fatto che, quando esso sta a un grado superiore di moralità, vede ancora più avanti innanzi a sé, e il suo giudizio su quello che si è a paragone con quello che si dovrebbe essere, e quindi il nostro biasimo di noi stessi, diventa sempre tanto più severo quanti più gradi di moralità abbiamo già asceso nell'intero corso del mondo divenutoci noto.

Se ora chiediamo tramite quali mezzi questo continuo progresso verso il meglio potrebbe essere mantenuto e anche accelerato, si vede subito che questo esito, il quale va in una smisurata lontananza, non dipenderà tanto da ciò che noi facciamo (per esempio dall'educazione che diamo alla generazione più giovane) e dal metodo secondo il quale dobbiamo procedere per attuarlo; bensì da ciò che farà la natura umana in noi e con noi, per necessitarci in un tracciato al quale non ci sottometteremmo facilmente da soli. Infatti soltanto da essa, o piuttosto (perché per l'adempimento di questo fine è richiesta la sapienza suprema) dalla provvidenza possiamo aspettarci un esito che va all'intero e da questo alle parti, poiché, al contrario, gli esseri umani con i loro progetti procedono solo dalle parti, anzi restano fermi a esse soltanto, e possono estendere all'intero come tale, che è troppo grande per loro, certamente le loro idee, ma non la loro influenza; soprattutto perché, in opposizione reciproca nei loro progetti, difficilmente si assocerebbero a questo scopo per proprio libero proposito.

Come la violenza multilaterale e la necessità che ne scaturisce dovette condurre alla fine un popolo alla decisione di sottomettersi alla coercizione che la ragione stessa gli prescrive come mezzo, cioè alla legge pubblica e di entrare in una costituzione civile statale [staatsbürgerlich], così anche la necessità derivante dalle guerre continue, nelle quali gli stati a loro volta cercano di sminuirsi o di soggiogarsi a vicenda, deve da ultimo portarli, anche controvoglia, o a entrare in una costituzione civile mondiale [weltbürgerliche], 173 o, se una tale condizione [Zustand] di una pace universale [311] (come è avvenuto anche più volte con stati troppo grandi) è, da un altro lato, ancora più pericolosa per la libertà, perché provoca il più terribile dispotismo, allora, però, questa necessità deve costringere a una condizione [Zustand], la quale, è vero, non è una cosa comune civile mondiale sotto un capo, ma uno stato [Zustand] giuridico di confederazione [Föderation] secondo un diritto internazionale [Völkerrecht] concertato in comune.

Infatti, poiché la cultura degli stati che si muove in avanti assieme con la tendenza crescente a ingrandirsi a spese altrui tramite astuzia e violenza deve moltiplicare le guerre e causare costi sempre più alti per mezzo di eserciti continuamente accresciuti (con il pagamento permanente del soldo), conservati sul piede di guerra e disciplinati, e provvisti di utensili bellici sempre più numerosi; mentre i prezzi di tutti i generi necessari crescono continuamente, senza che si possa sperare in un aumento a essi proporzionale dei metalli che li rappresentano; né nessuna pace dura tanto a lungo che il risparmio compiuto nel suo corso arrivi a essere uguale alla spesa per la guerra successiva, contro cui l'invenzione del debito pubblico è un ausilio certo ingegnoso ma alla fine autodistruttivo; così quello che la volontà buona avrebbe dovuto fare ma non ha fatto, lo deve attuare alla fine l'impotenza: che ogni stato divenga così organizzato al suo interno che non sia il capo dello stato, al quale la guerra propriamente non costa nulla (perché la conduce a spese di un altro, cioè il popolo) bensì il popolo, che la paga in prima persona, ad avere il voto che decide se ci debba essere guerra o no (ma per ciò deve presupporsi necessariamente la realizzazione di quell'idea del contratto originario). Infatti il popolo eviterà certamente di porsi, per mero desiderio di espansione o per presunte offese puramente verbali, in un pericolo di indigenza personale che non tocca il capo. E così anche la posterità (sulla quale non verranno rigirati carichi di cui non ha colpa) potrà sempre progredire verso il meglio proprio in senso morale, senza che ne debba essere causa l'amore nei suoi confronti, bensì solo l'amor proprio di ogni epoca: infatti ogni cosa comune, incapace di lederne un'altra con la violenza, si deve attenere soltanto al diritto e può con fondamento sperare che altre, proprio così formate, gli verranno, in questo, in aiuto.

Questa è solo opinione e mera ipotesi: incerta come tutti i giudizi che vogliono addurre, per un effetto che è nelle nostra intenzione e non sta interamente in nostro potere, la causa naturale che vi è unicamente commisurata, [312] e anche come tale essa non contiene un principio per il suddito in uno stato già sussistente, perché lo ottenga con la forza (come è stato mostrato in precedenza), bensì solo per i capi liberi da coercizione. Se certo non sta nella natura degli esseri umani, secondo l'ordine consueto, cedere d'arbitrio il proprio potere, pure non è nondimeno impossibile in circostanze pressanti: così si può ritenere una espressione non inadeguata dei voti e delle speranze morali degli esseri umani (nella coscienza della loro incapacità) l'aspettarsi le circostanze a ciò richieste dalla provvidenza; la quale procurerà allo scopo dell'umanità nell'interezza del suo genere, per il conseguimento della sua determinazione finale con l'uso libero delle sue forze fin dove arrivano, un esito contro cui operano appunto gli scopi degli esseri umani, considerati separatamente. Infatti proprio il contrasto reciproco delle inclinazioni da cui scaturisce il male procura alla ragione un gioco libero di soggiogarle insieme, e, in luogo del male, che distrugge se stesso, rendere dominante il bene, il quale, una volta che c'è, continua poi a conservarsi da sé.

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Da nessuna parte la natura umana appare meno degna di amore che nelle relazioni di interi popoli l'uno verso l'altro. Nessuno stato è assicurato un attimo contro gli altri per la sua indipendenza o la sua proprietà. C'è in ogni momento la volontà di soggiogarsi o di sottrarsi reciprocamente il proprio; e non può mai allentarsi l'armarsi per la difesa, che spesso rende la pace ancora più opprimente e rovinosa per il benessere interno della stessa guerra. Ora, contro questo, non c'è altro mezzo che un diritto internazionale [Völkerrecht] fondato su leggi pubbliche accompagnate da potere, cui ogni stato dovrebbe sottomettersi (secondo l'analogia di un diritto civile o statale degli uomini singoli); - infatti una pace universale durevole tramite il cosiddetto equilibrio delle potenze in Europa è una mera trama cerebrale, come la casa di Swift, 174 che era stata costruita dall'architetto così perfettamente secondo tutte le leggi dell'equilibrio, che crollò appena ci si posò sopra un passero. - Ma a tali leggi coercitive, si dirà, gli stati non si assoggetteranno mai; e la proposta di uno stato universale dei popoli [allgemeinen Völkerstaat], sotto il cui potere tutti i singoli [313] stati dovrebbero volontariamente adattarsi, per obbedire alle sue leggi, può ancora suonare elegante nella teoria di un abate St. Pierre 175 o di un Rousseau, 176 ma non vale per la pratica; infatti essa è sempre stata derisa anche da grandi statisti, ma ancor più da capi di stato, come un'idea infantilmente pedantesca uscita dalla scuola.

Di contro, da parte mia, confido però nella teoria, che deriva dal principio del diritto, su come debba essere il rapporto fra esseri umani e stati, e che decanta agli dei della terra la massima di procedere sempre, nelle loro controversie, in modo che sia introdotto un simile stato universale dei popoli e di assumerlo quindi come possibile (in praxi) e in grado di essere; ma nello stesso tempo confido anche (in subsidium) nella natura delle cose, che costringe a ciò che non si vuole spontaneamente (fata volentem ducunt, nolentem trahunt). 177 In quest'ultima poi verrà annoverata anche la natura umana; la quale, poiché in essa continua sempre a esser vivo il rispetto per il diritto e per il dovere, non posso o voglio ritenerla così sprofondata nel male che la ragione moralmente pratica, dopo molti tentativi falliti, non debba alla fine vincerlo e rappresentarla anche come degna d'amore. Così, anche da un punto di vista cosmopolitico, rimane ferma l'affermazione: ciò che vale per la teoria, vale anche per la pratica.



[139] «Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis», Berlinische Monatsschrift 22 (September) pp. 201-284. I riferimenti numerici fra parentesi nel testo riguardano il volume VIII dell'Akademie-Ausgabe (https://korpora.org/Kant/aa08/.

[140] Finanziere, nel senso di esperto di scienza delle finanze e dell'amministrazione pubblica: la camera o Kammer era il luogo in cui si conservava il tesoro del principe. [N.d.T.]

[141] Modi di dire forensi che corrispondono a "in teoria" e "in pratica": per esempio un avvocato difensore può chiedere l'assoluzione del suo cliente in thesi, perché convinto che il diritto correttamente interpretato la giustifichi, e una pena molto mite in hypothesi, cioè qualora la sua interpretazione non venga riconosciuta dal giudice. [N.d.T.]

[142] Secondo Rudolf Reicke (Lose Blätter aus Kants Nachlass. F. Beyer, Koenigsberg, 1889, p. 148 n. https://www.archive.org/details/losebltterauska01reicgoog) uno degli innominati interlocutori di Kant potrebbe essere il matematico Abraham Gotthelf Kästner, il quale aveva fatto uscire proprio nel 1793, a Göttingen, dei Gedanken über das Unvermögen der Schriftsteller Empörungen zu bewirken, mettendo alla berlina l'inanità politica delle proposte dei teorici. Nei suoi appunti preparatori (Vorarbeiten zu Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein. Taugt aber nicht für die Praxis, AA XXIII, 127) Kant scrive in effetti - ma senza fare nomi - che è naturale che un professore di matematica ragioni in questi termini. [N.d.T.]

[143] Regola per il retto uso di una facoltà umana. [N.d.T.]

[144] Eneide, I.140. Citato da E. Burke, Reflections on the Revolution in France, §92: «It is no wonder, therefore, that with these ideas of everything in their constitution and government at home, either in church or state, as illegitimate and usurped, or at best as a vain mockery, they look abroad with an eager and passionate enthusiasm. Whilst they are possessed by these notions, it is vain to talk to them of the practice of their ancestors, the fundamental laws of their country, the fixed form of a constitution whose merits are confirmed by the solid test of long experience and an increasing public strength and national prosperity. They despise experience as the wisdom of unlettered men; and as for the rest, they have wrought underground a mine that will blow up, at one grand explosion, all examples of antiquity, all precedents, charters, and acts of parliament. They have "the rights of men". Against these there can be no prescription, against these no agreement is binding; these admit no temperament and no compromise; anything withheld from their full demand is so much of fraud and injustice. Against these their rights of men let no government look for security in the length of its continuance, or in the justice and lenity of its administration. The objections of these speculatists, if its forms do not quadrate with their theories, are as valid against such an old and beneficent government as against the most violent tyranny or the greenest usurpation. They are always at issue with governments, not on a question of abuse, but a question of competency and a question of title. I have nothing to say to the clumsy subtilty of their political metaphysics. Let them be their amusement in the schools.- “Illa se jactet in aula Aeolus, et clauso ventorum carcere regnet”.- But let them not break prison to burst like a Levanter to sweep the earth with their hurricane and to break up the fountains of the great deep to overwhelm us.» Nell'Eneide Nettuno interviene per sedare una tempesta, dicendo che il vento si può pavoneggiare solo nel suo antro, perché fuori è lui a regnare: Burke è favorevole a questo status quo, mentre Kant desidera che i venti della teoria spirino liberamente fuori dalle aule. [N.d.T.]

[145] Saggi su vari argomenti di morale e di letteratura di Ch. Garve, prima parte, pp. 111-116. Non chiamo la contestazione delle mie tesi attacchi, ma obiezioni di questo degno uomo contro qualcosa su cui egli si augura di essere d'accordo (come spero) con me. Gli attacchi, in quanto affermazioni sfavorevoli, dovrebbero stimolare a una difesa della quale non è questo il luogo, né io ho propensione.

[146] L'essere degni della felicità è quella qualità di una persona, che si fonda sulla volontà propria del soggetto, in conformità con la quale una ragione universalmente legislatrice (della natura così come della volontà libera) si armonizzerebbe con tutti gli scopi di questa persona. Essa dunque è completamente diversa dall'abilità di procurarsi una felicità. Infatti egli non è degno né di questa, né del talento prestatogli dalla natura, se ha una volontà che non si accorda con ciò che si addice esclusivamente a una legislazione universale della ragione, e che perciò non può esservi inclusa (cioè che contraddice la moralità).

[147] Kant usa l'espressione Glückseligkeit, composta dalle parole Glück (fortuna) e Seligkeit (beatitudine). La parola tedesca descrive una situazione di soddisfazione compiuta dell'animo, che include anche la contemplazione delle cose superiori: la traduzione più felice sarebbe la parola greca eudaimonia. Si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, cit. p. 42. [N.d.T.]

[148] Il bisogno di assumere nel mondo un sommo bene, possibile anche con la nostra cooperazione, come scopo finale [Endzweck] di tutte le cose non è un bisogno che proviene da una carenza nei moventi morali, bensì da una carenza nelle condizioni esterne, nelle quali soltanto, in conformità a questi moventi, può essere creato un oggetto come fine in sé stesso (come scopo finale morale). Infatti una volontà non può essere senza scopo; per quanto, quando si tratta meramente della necessità legale delle azioni, si debba farne astrazione e la legge debba costituire il solo motivo determinante [Bestimmungsgrund] delle azioni stesse. Ma non ogni scopo è morale (per esempio non lo è la felicità propria): al contrario, lo scopo deve essere non egoistico; e il bisogno di uno scopo finale (un mondo come sommo bene possibile anche con la nostra cooperazione) dato tramite la ragion pura, che comprenda sotto un principio la totalità di tutti i fini, è un bisogno di una volontà non egoistica che si espande ancora oltre l'osservanza delle leggi formali per la produzione di un oggetto (il sommo bene). - Questa è una determinazione della volontà di tipo particolare, cioè tramite l'idea della totalità di tutti gli scopi, ove si pone a fondamento che, se stiamo in certe relazioni morali con le cose nel mondo, dobbiamo in ogni caso obbedire alla legge morale; e a ciò si aggiunge ancora il dovere di far sì, secondo tutte le nostre facoltà, che esista una tale situazione (un mondo commisurato ai fini morali più alti). Qui l'uomo pensa se stesso secondo l'analogia con la divinità, la quale, sebbene non bisognosa soggettivamente di nessuna cosa esterna, non si può ugualmente concepire rinchiusa in se stessa, bensì determinata a produrre fuori di sé il sommo bene, anche tramite la coscienza della propria autosufficienza: tale necessità (che nell'essere umano è dovere) nell'essere sommo non può essere rappresentata da noi se non come bisogno morale. Neanche nell'essere umano, quindi, il movente [Triebfeder], che sta nell'idea del sommo bene possibile nel mondo con la sua cooperazione, è l'intenzione della felicità propria, bensì solo questa idea come fine in se stesso, e quindi il suo perseguimento come dovere. Infatti essa non contiene la prospettiva della felicità in assoluto, ma solo una proporzione fra questa e la dignità del soggetto di essere anche felice. Ma non è egoistica una determinazione della volontà che limita se stessa e il suo intento di appartenere a una tale totalità a questa condizione.

[149] Sull'uso di "dogmatico" nel senso, positivo, di dottrinale, rigorosamente dimostrativo si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant cit., pp. 19. ss. [N.d.T.]

[150] Questo è appunto ciò su cui insisto. Il movente che l'essere umano può avere prima che gli sia prefissa una meta (scopo) non può essere chiaramente nient'altro che la stessa legge, in virtù del rispetto che essa ispira (a prescindere da quali fini si possano avere e raggiungere in virtù della sua osservanza). Infatti la legge in considerazione dell'elemento formale dell'arbitrio è l'unica cosa che rimane, quando ho lasciato fuori gioco la materia dell'arbitrio (la meta, come il signor Garve la chiama).

[151] La felicità contiene tutto ciò che ci è fornito dalla natura (e nulla di più); ma la virtù ciò che nessuno all'infuori dell'essere umano può darsi o prendersi. Se si volesse invece dire che tramite la deviazione da quest'ultima l'essere umano potrebbe incorrere almeno in rimproveri e in autocensure puramente morali, e dunque in scontentezza, questo si può in ogni caso concedere. Ma di questa scontentezza puramente morale (che deriva non dalle conseguenze per lui svantaggiose dell'azione, bensì dalla sua stessa illegittimità) è capace solo chi è virtuoso, o chi è sulla via di diventarlo. Di conseguenza non è la causa, ma solo l'effetto del suo essere virtuoso; e il fondamento che muove [Bewegungsgrund] a essere virtuoso non poteva essere tratto da questa infelicità (se si vuol chiamare così il dolore derivante da un misfatto).

[152] Il professor Garve, nelle sue note al libro di Cicerone De Officiis, ed. 1793, p. 69, compie questa confessione, rilevante e degna del suo acume: «La libertà, secondo la sua più intima convinzione, rimarrà sempre irrisolvibile e non sarà mai spiegata». Una prova della sua realtà effettiva non si può assolutamente incontrare né in una esperienza immediata né in una mediata; ma senza nessuna prova non la si può neppure accettare. Ora, poiché non se ne può addurre una prova da fondamenti meramente teoretici (perché questi dovrebbero essere cercati nell'esperienza), dunque essa deve venir condotta da principi meramente pratici, ma parimenti non tecnico-pratici (perché questi di nuovo richiederebbero fondamenti empirici), e perciò soltanto pratico-morali: così ci si deve chiedere perché il signor Garve non abbia fatto ricorso al concetto della libertà per salvare almeno la possibilità di tali imperativi.

[153] Se si vuole connettere alla parola grazioso un concetto determinato (diverso da benigno, benefico, protettivo e simili), essa può venir riferita solo a colui nei confronti del quale non ha lungo nessun diritto coercitivo. Dunque solo il capo dell'amministrazione statale, il quale attua e concede ogni bene che è possibile secondo leggi pubbliche (infatti il sovrano [Souverän] che le dà è per così dire invisibile: è la stessa legge personificata, non l'attore) può venir chiamato col titolo di grazioso signore, come l'unico verso cui non ha luogo nessun diritto coercitivo. Così anche in una aristocrazia, come per esempio a Venezia, il senato è l'unico grazioso signore: i nobili [in italiano nel testo], che lo compongono, sono tutti insieme, non escluso lo stesso doge (perché solo il Maggior consiglio è il sovrano), sudditi, e per quanto riguarda l'esercizio del diritto, tutti uguali agli altri, cioè spetta al suddito un diritto coercitivo nei confronti di ciascuno di loro.[Kant probabilmente confonde il Senato con il Maggior consiglio (der große Rath). In realtà Senato e Maggior consiglio, nell'ordinamento della repubblica di Venezia, erano due organi diversi, le cui funzioni furono fissate con chiarezza fra '400 e '500: il Senato esercitava ordinariamente il potere legislativo, mentre il Maggior consiglio, che deteneva la suprema autorità, eleggeva i dogi e gli altri ufficiali dello stato, e sanzionava la leggi più importanti. (N.d.T.)] I prìncipi (cioè le persone cui spetta un diritto ereditario al governo) ora sono però chiamati graziosi signori (secondo i modi di corte, par courtoisie) anche in questo aspetto e a causa di quelle pretese; eppure secondo la loro condizione [Besitzstand: status possessionis] sono consudditi, nei confronti dei quali anche al minimo dei loro servi spetta un diritto coercitivo, per il tramite del capo dello stato. Quindi nello stato non ci può essere più di un unico grazioso signore. Ma per quanto concerne le graziose signore (propriamente gentili), esse possono essere considerate tali che il loro ceto, insieme con il loro sesso (di conseguenza solo nei confronti di quello maschile) le legittima a ricevere questo titolo, e ciò in virtù del raffinamento dei costumi (detto galanteria) secondo il quale quello maschile tanto più crede di onorare se stesso quanto più concede priorità su di sé al bel sesso.

[154] In una condizione analoga a quella dei clientes. I clientes, protetti dai loro patrones, erano uomini liberi e tuttavia non godevano del suffragium e degli honores, cioè dell'elettorato attivo e passivo. [N.d.T.]

[155] Chi produce un opus lo può consegnare a un altro per alienazione, proprio come se fosse la sua proprietà. Ma la praestatio operae non è una alienazione, il domestico, il commesso di bottega, il salariato a giornata, lo stesso parrucchiere sono solo operarii, non artifices (nel senso più ampio della parola), non membri dello stato, e quindi non sono neppure qualificati a essere cittadini. Sebbene colui cui do la mia legna da ardere perché la lavori, o il sarto, cui do la mia stoffa per farne un vestito sembrino trovarsi in rapporti con me assolutamente simili, i primi però sono tanto diversi dai secondi, quanto il parrucchiere differisce dal fabbricante di parrucche (a cui posso aver anche dato io i capelli), e anche quanto il salariato a giornata differisce dall'artista o dall'artigiano, il quale fa un lavoro che gli appartiene finché non è pagato. Dunque i secondi, nella veste di chi esercita una industria, fanno commercio della loro proprietà con altri (opus), il primo concede l'uso delle sue forze a un altro (operam). - È un po' difficile, lo riconosco, determinare i requisiti per poter reclamare lo status di un essere umano che sia signore di se stesso.

[156] Se per esempio fosse annunciata una imposta proporzionale di guerra per tutti i sudditi, questi non potrebbero dire che è ingiusta perché è oppressiva, in quanto la guerra, secondo la loro opinione, forse non sarebbe necessaria; infatti non sono autorizzati a dar giudizi su questo; bensì, poiché rimane pur sempre possibile che essa sia inevitabile e l'imposta indispensabile, essa deve valere per legittima nel giudizio del suddito. Ma se in tale guerra certi proprietari fossero gravati da prestazioni, mentre altri dello stesso ceto ne fossero dispensati, si vede facilmente che un popolo intero non potrebbe essere d'accordo su una legge di questo genere e ha facoltà almeno di fare rimostranze contro di essa, perché questa distribuzione disuguale dei gravami non può essere ritenuta giusta.

[157] Kant cita a memoria Cicerone, De Legibus, III, 3,8: «Ollis salus populi suprema lex esto»: «a quelli sia legge suprema la salvezza del popolo».[N.d.T.]

[158] Di ciò fanno parte certi divieti di importazione, affinché siano incrementati i mezzi di guadagno per i sudditi a loro favore e non a vantaggio di esterni e a incoraggiamento dell'operosità altrui, perché lo stato, senza la ricchezza del popolo, non possederebbe energie sufficienti per opporsi a nemici esterni o sostentare se stesso come cosa comune.

[159] Non c'è nessun casus necessitatis se non nel caso in cui sono in reciproco contrasto doveri incondizionati e doveri (forse davvero grandi eppure) condizionati; per esempio quando si tratta di allontanare una disgrazia dello stato con il tradimento di un essere umano che nei confronti di un altro stia in un rapporto più o meno come quello fra padre e figlio. Questa diversione del male del primo è un dovere incondizionato, ma l'allontanamento dell'infelicità di quest'ultimo è un dovere solo condizionato (cioè nella misura in cui non si è reso colpevole di un delitto contro lo stato). La denuncia dell'intrapresa del primo che quest'ultimo farebbe alle autorità, la compie forse con la massima riluttanza, ma sotto la pressione della necessità (cioè della necessità morale). - Ma se si dice, di uno che spinge via un altro naufrago dalla sua tavola per conservare la propria vita, che ne ha ricevuto diritto in virtù della sua necessità (fisica), questo è del tutto falso. Infatti conservare la mia vita è dovere solo condizionato (se può aver luogo senza delitto); ma non prenderla a un altro che non mi offende e anzi non mette mai in pericolo di perdere la mia, è dovere incondizionato. I maestri del diritto civile generale procedono nondimeno in modo del tutto conseguente con la potestà giuridica che concedono a questo aiuto in caso di necessità. Infatti l'autorità non può connettere nessuna pena col divieto, perché questa pena dovrebbe essere la morte. Ma sarebbe una legge insensata minacciare la morte a qualcuno se in circostanze pericolose non si è consegnato liberamente alla morte.

[160] Ius Naturae. Editio Vta. Pars posterior, §§ 203 - 206.

[161] Violatores maiestatis [N.d.T.]

[162] Nel 1354 il duca Giovanni III di Brabante concesse una carta con la quale i duchi si impegnavano a conservare l'integrità del ducato, ad ammettere nel suo consiglio solo nativi della regione e a non fare guerre, stipulare trattati o imporre tributi senza il consenso delle municipalità, per ottenere l'assenso al cambiamento dinastico che sarebbe risultato dal matrimonio della figlia ed erede Giovanna con Venceslao duca del Lussemburgo. Quando l'imperatore austriaco Giuseppe II tentò di abolirla, nel 1789, i belgi gli risposero con una rivoluzione. [N.d.T.]

[163] Il contratto effettivo del popolo col principe può sempre anche essere violato: però allora il popolo può anche reagire non immediatamente come cosa comune, bensì solo tramite sedizione. Infatti la costituzione finora esistita è stata stracciata dal popolo; ma l'organizzazione di una nuova cosa comune deve innanzitutto ancora aver luogo. In questo caso quindi sopraggiunge lo stato dell'anarchia con tutti gli orrori che sono almeno possibili a causa sua; e l'ingiustizia che qui ha luogo è allora ciò che ogni partito infligge all'altro: come chiarito anche dall'esempio addotto, nel quale i sudditi ribelli di quello stato vollero infine imporsi con violenza una costituzione che sarebbe stata assai più opprimente di quella che abbandonavano, e cioè l'essere spolpati da religiosi e aristocratici, anziché potersi attendere più uguaglianza nella ripartizione degli oneri statali sotto un capo che domini tutti.

[164] G-J. Danton, «Sur l'instruction gratuite et obligatoire» (13 août 1793), Discours Civiques de Danton avec une introduction et des notes par Hector Fleischmann, «Citoyens, après la gloire de donner la liberté à la France, après celle de vaincre ses ennemis, il n'en est pas de plus grande que de préparer aux générations futures une éducation digne de la liberté; tel fut le but que Lepeletier se proposa. Il partit de ce principe que tout ce qui est bon pour la société doit être adopté par ceux qui ont pris part au contrat social.» Nella vecchia traduzione di Gioele Solari, uscita postuma nel 1956 (I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1965, pp. 237-281) si legge in nota (p. 268) che il traduttore non ha saputo trovare traccia, in Danton, di una simile asserzione, né l'ha trovata Vorländer. Filippo Gonnelli, nella sua nuova traduzione del 1995 (I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 161, n 25) ripete, a distanza di quarant'anni: «Non si sono trovati riferimenti a questa notizia». Ma è stato sufficiente fare una ricerca in rete per individuare almeno un riferimento, e cioè un inciso in G.-J. Danton, «Sur l'instruction gratuite et obligatoire», del 13 agosto 1793 (il saggio di Kant esce sul numero di settembre della Berlinische Monatsschrift) nel quale si dà evidentemente per scontato che il contratto sociale sia un evento. Se i discorsi di Danton fossero ancora sotto copyright e non fossero liberamente disponibili in rete, una operazione così semplice sarebbe stata resa assai più complessa e costosa, e la probabile soluzione di questo piccolo enigma sarebbe stata ancora differita, [N.d.T.]

[165] F. Gonnelli ritiene che Verfassung, nel linguaggio kantiano, significhi "forma politica" mentre Constitution indicherebbe la "carta normativa"; egli dunque glossa l'uso di questa parola così: «Chiara, qui, la distinzione fra Verfassung e Constitution» (I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 160 n. 10 e 26) e parla di conseguenza una «carta costituzionale» inglese (p. 149). Tuttavia, la Gran Bretagna non aveva e non ha una costituzione scritta: l'uso stesso di Kant, che certamente non ignorava questa circostanza, indica quindi le due espressioni sono trattate come equivalenti. [N.d.T.]

[166] Nello stato nessun diritto può essere sottaciuto con una riserva segreta, quasi subdolamente; tanto meno il diritto che il popolo si arroga, in quanto pertinente alla costituzione: perché tutte le leggi di questa devono essere pensate come scaturite da una volontà pubblica [öffentlich]. Quindi, se la costituzione permettesse l'insurrezione, dovrebbe dichiararne pubblicamente il diritto e in che modo sia da farne uso.

[167] "Il giudizio è incerto, l'esperimento rischioso": citazione a memoria di Kant da Ippocrate, Aforismi 1.1: Vita brevis, ars longa, occasio praeceps, experimentum periculosum, iudicium difficile (la vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fugace, l'esperimento è pericoloso, il giudizio è difficile) [N.d.T.]

[168] «Allora, se per caso hanno visto un uomo venerabile per pietà e per meriti, tacciono e stanno con orecchi ben disposti» (Eneide, I.151-152) [N.d.T.]

[169] Non salta subito agli occhi in che modo una presupposizione universalmente filantropica indichi una costituzione cosmopolitica, e questa a sua volta la fondazione di un diritto internazionale, come situazione [Zustand] nella quale soltanto possono svilupparsi a dovere le disposizioni dell'umanità che rendono degno di amore il nostro genere. La conclusione di questa parte renderà evidente questa connessione.

[170] Si tratta di Jerusalem, oder über Religiöse Macht und Judentum (1783) di M. Mendelssohn, un testo molto apprezzato da Kant, che argomenta a favore della libertà di coscienza nei confronti dello stato e dell'equivalente valore pragmatico delle diverse fedi religiose. [N.d.T.]

[171] Il castigo infernale cui fu condannato Sisifo, per aver tentato di sfuggire alla morte, rappresenta la condizione umana: ogni generazione è costretta a ricominciare da capo quello che la precedente, con fatica, aveva portato a termine, proprio come Sisifo deve eternamente ritrascinare per la stessa china la pietra destinata a ricadere non appena raggiungerà la vetta. [N.d.T.]

[172] Liquidum e illiquidum significano rispettivamente "chiaro" e "non chiaro". [N.d.T.]

[173] Altrove si è preferito tradurre weltbürgerliche con "cosmopolitico". In questo caso al calco di origine greca è stato preferito lo svolgimento italiano in modo da mettere in evidenza la continuità tra costituzione civile statale e mondiale. [N.d.T.]

[174] J. Swift, Gulliver's Travels, V; «There was a most ingenious Architect who had contrived a new Method for building Houses, by beginning at the Roof, and working downwards to the Foundation; which he justified to me by the like Practice of those two prudent Insects, the Bee and the Spider». [N.d.T.]

[175] Charles Irénée Castel de Saint-Pierre, negoziatore del trattato di Utrecht, aveva fatto uscire anonimamente, nel 1713, un Projet pour rendre la paix perpetuelle en Europe, che proponeva agli stati di rinunciare all'uso delle armi in favore di un arbitrato obbligatorio; la guerra sarebbe stata legittima solo contro chi l'avesse rifiutato. Di questo disegno Federico II aveva ironicamente scritto, in una lettera a Voltaire del 12 aprile 1742, che era un progetto bellissimo, alla cui riuscita mancava solo un'inezia come il consenso dell'Europa (Œuvres de Frédéric le Grand - Werke Friedrichs des Großen Digitale Ausgabe der Universitätsbibliothek Trier, hrsg. v. J.D.E. Preuss, Berlin, Decker, 1846-56, Bd. 22, p. 103). [N.d.T]

[176] Rousseau aveva curato e commentato l'edizione degli scritti irenici di Saint-Pierre. Il suo lavoro, contenuto in The Political Writings of Jean Jacques Rousseau, ed. from the original manuscripts and authentic editions, with introductions and notes by C. E. Vaughan (Cambridge, Cambridge University Press, 1915). In 2 vols, Vol. 1, è consultabile a questo indirizzo: https://oll.libertyfund.org/?option=com_staticxt&staticfile=show.php%3Ftitle=710&chapter=88777&layout=html&Itemid=27. In La Paix Perpétuelle et la Polysynodie: extraits et jugements (composto nel 1756, pubblicato nel 1761), Rousseau aveva proposto che gli stati europei, già uniti da molteplici legami e, realisticamente, in una situazione di equilibrio tale da rendere impossibile la supremazia di uno di essi, formassero una alleanza perpetua e irrevocabile (confédération), dotata di una dieta o congresso permanente composto di plenipotenziari nominati dagli stati, la quale garantisse a ciascuno il proprio territorio e la propria costituzione. I paesi che si fossero sottratti alle decisioni collettive sarebbero stati messi al bando e affrontati con le armi da parte dell'alleanza. Questo progetto sembra così poco praticabile, aggiunge Rousseau nel suo Jugement sur la Paix Perpétuelle (scritto nel 1756; uscito postumo nel 1782), perché l'interesse apparente dei monarchi ad accrescere il proprio potere differisce dall'interesse reale degli stati al superamento della guerra: solo una rivoluzione - per certi versi ancora più temibile - potrebbe realizzare una pace perpetua. [N.d.T]


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